Nel maggio del 2001, al Festival del cinema di Cannes, la giuria ecumenica premiò Viaggio a Kandahar del regista afghano Mohsen Makhmalbaf, un film potente e profetico: andate a rivederlo. Si racconta di una giovane afghana rifugiata in Canada che torna in patria in cerca della sorella rimasta lì dopo la fuga della famiglia: da lei ha ricevuto una lettera senza speranza, non ha più ragioni per vivere e ha deciso di suicidarsi durante l’ultima eclissi solare del millennio.
Il film racconta un pericolosissimo viaggio di ritorno a Kandahar, attraversando il paese in mano a talebani e sotto stretto controllo di polizia.
Nafas deve indossare il burka e noi vediamo ogni cosa con gli occhi di lei: le perquisizioni, l’indottrinamento militare dei bambini nelle scuole coraniche, la corsa degli zoppi per le mine antiuomo verso le protesi paracadutate dal cielo. Impariamo che cos’è una prigione di stoffa, quale spaesamento sensoriale e quale precario equilibrio, fisico e mentale, si può mantenere completamente coperte da una pesante palandrana violetta che attutisce i suoni e limita pesantemente l’andatura e lo sguardo, offrendo agli occhi solo i buchi di una rete di tessuto. Fino a quel momento pochi sapevano che cosa fosse un burka e che un hijab – un foulard che copre i capelli e il collo ma lascia il viso scoperto – non è un chador, un mantello che copre anche il corpo, o niquab, che lascia fuori soltanto gli occhi, o un burka che copre anche quelli rendendoti quasi cieca e dipendente da chi ti accompagna. Può bastare un ragazzino, ma dev’essere maschio. Esposta alla violenza a ogni angolo di strada, Nafas sperimenta – e noi con lei – un vivere dominato dalla paura.
Poi arrivò l’11 settembre 2001. Un pomeriggio di vent’anni fa ecco il terrore in azione nel cuore dell’Occidente: le immagini erano talmente incredibili da lasciare pietrificati dallo stupore. Avevo ricevuto la telefonata di un collega. Lui: accendi immediatamente il televisore. Io: che cosa è successo? Lui: sbrigati, non c’è tempo e non ci sono parole, accendi e capisci da te. Il famoso aereo in missione suicida stava trapassando il vetro-cemento di una delle torri del World Trade Center. Nelle ore successive avremmo visto precipitare nel vuoto i corpi di chi tentava fuggire alle fiamme e poi la nuvola di polvere densa e grassa, che stava avvolgendo tutto rendendo l’aria irrespirabile, i soccorsi forsennati e le reti improvvisate di solidarietà … Era il buongiorno del millennio. Neanche un mese dopo iniziavano i bombardamenti americani e britannici per stanare Al Quaeda e distruggere la sua centrale terroristica in Afghanistan. L’occupazione militare è durata vent’anni e finita a ferragosto con un’altrettanto incredibile presa di Kabul, senza una vera resistenza dell’esercito regolare afghano. Tralascio la sterile scia di parole: quelli che si doveva andare ma non per costruire una nazione ( e allora perché restare vent’anni, se era un’operazione di polizia?) e quelli che non si doveva andare ma poi bisognava restare. Intanto l’inerzia.
Nuove generazioni di afghani sono cresciute senza conoscere il regime talebano, è iniziata la grande fuga con i corpi aggrappati ai carrelli degli aerei che volano giù. Non ci sono organizzazione né piani di evacuazione o corridoi umanitari per proteggere quelli che se restano sono già morti. C’è il caos, le forze di occupazione abbandonano il campo con il debole paravento di accordi fatti con i talebani per garantire i diritti umani. Chi conosce bene il paese racconta che le attiviste stanno entrando in clandestinità, cercano di scomparire sotto i burka, cancellano gli account sui social, distruggono tablet e computer. Loro si stanno preparando, sanno che non si può sottomettere e tornare a imporre un dominio anacronistico senza ferocia. Se non le aiutiamo perderemo il rispetto di noi stesse.