Il libro resterà come la ruota e il cucchiaio, mentre i contenuti digitali avvizziranno nei nostri device, superati da nuove generazioni di macchine: è già successo con i cd-rom, le videocassette, i floppy. Fedele al celebre assioma di Umberto Eco, con il quale ha condiviso una lunga e fortunata vita editoriale, Mario Andreose manda in libreria con La Nave di Teseo Voglia di libri. Ma questa sua seconda raccolta di piccole storie e memorie personali, ritratti di autori e di editori, avventure di titoli importanti visti nelle loro metamorfosi editoriali, non è un breviario per apostoli della lettura, un esercizio di culto di quelli che mettono in fuga i miscredenti, un catechismo per l’esercito della salvezza dei lettori, è un carnét con le annotazioni di uno che si è divertito molto e tratteggia la sua bottega con sottile ironia.
Così ecco la gran fucina milanese incontrata negli anni Sessanta, quando la città era una Mecca per chi avesse sognato i mestieri dei giornali e del libro. Allora un giovane veneziano sveglio come Mario Andreose poteva riuscire a farsi dare appuntamento da Gaetano Baldacci, direttore del Giorno, casualmente incontrato al Lido durante la Mostra del Cinema. E questo bastava a fare le valige per Milano con pochi soldi in tasca e poi a fermarsi in cerca di fortuna, frequentando il bar Jamaica a Brera, gironzolando per mostre, pasteggiando nelle latterie, invitato come tanti a feste dove tutti parlavano con un tutti e artisti, scrittori, giornalisti e grandi fotografi si mescolavano a ragazzi e ragazze di belle speranze.
A quei tempi, per mantenersi, Mario ha corretto montagne di bozze, finché trovò un posto stabile di correttore al nascente e già mitico Saggiatore di Alberto Mondadori, che – come si usava allora – lo introdusse personalmente: «Alberto si era messo in proprio per emanciparsi dal padre e faceva libri bellissimi in monotype, con carta pregiata e progetti grafici importanti, però erano funestati da errori di stampa – dice Andreose apparso in video sul mio pc – Aveva in redazione fior di intellettuali che non si curavano di accenti e accapo, trascurati in nome dell’importanza dei contenuti; aveva bisogno di un correttore come del pane e lì cominciò il mio apprendistato». Segue una parabola professionale che passa per Mondadori, Fabbri, Bompiani – quasi sempre da direttore editoriale – e arriva fino alla fondazione della Nave di Teseo.
Andreose scrive piccole storie di iniziazione e di concupiscenza, di traduzioni di capolavori e di scoperte di autori nuovi, di gusto e decadenza di tendenze culturali, di senso degli affari, di luci che sbrilluccicano e poi diventano cenere. Annotazioni da cronista settecentesco, fatte con l’essenziale, tratto leggero e qualche graffio. Intanto eccolo qui, a rammaricarsi a ottantasei anni per aver bucato la Buchmesse 2020. La pandemia ha mandato all’aria il gioco dell’oca degli editori con la sua mappa di appuntamenti globali: Francoforte e poi Londra, Parigi, Gerusalemme e New York. Un circuito obbligato per la tribù nomade e cosmopolita che gira il mondo in cerca di idee e titoli nuovi. Certo, si fa tutto anche su Skype e su Zoom, ma vuoi mettere? «Il rapporto umano con i colleghi è un’altra cosa. In quella babele planetaria c’è un senso di unicità e di appartenenza, si creano rapporti preferenziali e amicizie che rivelano sempre qualcosa, magari chiacchierando al bar e nei corridoi: è come nelle vecchie fiere, si va a mostrare il pezzo pregiato e a volte una confidenza di lettura vale più di un acquisto o di una vendita. Il gran colpo – aggiudicarsi un libro destinato ad avere molta fortuna – accade quasi sempre per caso».
Il passaparola degli editori è molto importante, è una specie di bussola, il fruscio delle idee dice dove gira il vento, anticipa quello che verrà. Su quella piazza, Mario Andreose si è mosso «in allegria» con l’agilità felpata di un gatto: essere stato l’agente dei diritti internazionali di Eco, uno degli autori italiani più tradotti, gli ha dato credito e l’attenzione privilegiata di tanti editori stranieri. Il successo de Il nome della Rosa a suo tempo fece di lui uno degli uomini più ricercati, ma la partenza era stata in salita. Il thriller medievale di un affermato studioso di semiotica, saggista già molto tradotto, fu in principio considerato «un errore».
Non volle pubbocare Il nome della rosa lo storico editore francese di Eco, Seuil, che poi se ne pentì e chiese una seconda chance con Il pendolo di Foucault. In Francia lo prese Grasset, perché la lettura aveva conquistato Nicky, la moglie triestina di Jean-Claude Fasquelle; negli Stati Uniti, l’editor di Farrar, Strauss & Giroux, David Rieff, figlio di Susan Sontang, quell’anno gli preferì Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. A prendere la Rosa fu Helen Wolff, una signora di origine serba, colta e poliglotta, direttrice di collana da Harcourt, che se lo aggiudicò come canto del cigno, dato che stava per passare la mano. «La fortuna dei nostri e, più in generale, di tutti gli autori non anglofoni, al di là dell’Atlantico, è sempre stata legata anche all’evenienza di incorrere in lettori nello stesso tempo competenti e influenti», annota Andreose nei sui taccuini.
Mario è stato l’ombra di Umberto, Eco e Andreose avevano la stessa età e una lunga milizia nella bottega di Valentino Bompiani. Per lavorare con una personalità estrosa e imponente, e più in generale con gli autori, ci vogliono dedizione, pazienza e capacità di ascolto, bisogna saper cedere spazio e restare in disparte. Un’arte fatta di attitudini in via di dismissione nell’epoca del narcisismo di massa. Quello con Umberto Eco è stato il sodalizio editoriale della vita e insieme un’amicizia.
«Avevo sempre letto i libri di Umberto – racconta l’Andreose che galleggia sullo schermo – e quando l’ho conosciuto mi era già familiare, sapevo che cosa aspettarmi e questo ha reso più facile proporgli l’interlocuzione giusta. Eco aveva lavorato diciassette anni in Bompiani e del mestiere sapeva già tutto. Con altri autori era diverso, con Moravia c’era una barriera: lui era il grande autore, io l’editore … ». Però, leggo nei taccuini che i due, nella loro ricercata eleganza, andavano insieme a vestirsi da Cenci e si scambiavano confidenze.
«D’istinto mi è riuscito stabilire una forma di rapporto totalmente diversa con ciascun autore, non sono stato propriamente Zelig, ma certo ho trovato la maniera per entrare in sintonia. Ho sempre avuto chiaro che loro valevano più di me e, se volevo costruire un rapporto di fiducia, ero io a dovermi adeguare. Moravia era impaziente, un autodidatta di genio: qualunque cosa dicesse nasceva da un pensiero originale, nulla di già sentito».
Leggo nelle memorie di Andreose che in uno di quei pomeriggi estemporanei, mentre sceglievano giacche e cravatte, Moravia gli confidò d’essere stato un ragazzo molto sfortunato con le donne. Le sue profferte di matrimonio erano state ripetutamente respinte: innamorato di una giovanissima parigina, fu rifiutato dalla facoltosa famiglia di lei per motivi razziali – l’origine ebraica; non volle sposarlo l’aristocratica romana Silvia Piccolomini, mentre con la pittrice Lélo Fiaux, figlia dei fiori ante litteram, che era già sposata, rinunciò – d’accordo con lei – all’unica paternità della sua vita. Tutto accadeva prima della guerra e di Elsa Morante: «Da giovane Alberto voleva assolutamente sposarsi, aveva bisogno di stabilità sentimentale, solo a cinquant’anni aveva maturato il cinismo indispensabile per passare da un letto all’altro con una certa indifferenza».
Ma questi sono ricordi dell’età matura, appartengono all’Andreose ormai direttore di Bompiani; se si torna a quello giovane e alla sua iniziazione, la «figura seminale» – come la chiama lui – quella che gli ha regalato una formazione d’alta classe, è quella di un gigante che fu uomo fragilissimo: Giacomo Debenedetti, direttore letterario al Saggiatore dove scriveva personalmente risvolti e cataloghi per i librai e talvolta gli chiedeva – era ormai caporedattore – di preparare le tracce. Sulla bottega scintillante di Alberto il Magnifico, dove interagivano in una specie di brain storming continuo personalità eminenti della scuola filosofica milanese di Antonio Banfi, musicologi importanti, grandi archeologi e storici dell’arte, etnologi come Ernesto De Martino, stavano per piovere lapilli e cenere. I conti non tornavano e Debenedetti, «al quale Alberto sembrava aver consegnato le chiavi della sua vita», cadde in disgrazia.
Triste parabola di un maestro, contemporaneamente estromesso dalla sua casa editrice, fatto fuori dall’Accademia che a Debenedetti negava la cattedra – a presiedere la commissione che lo bocciò c’era Natalino Sapegno, suo vecchio amico – e dal Partito comunista, di cui aveva orgogliosamente la tessera, che lo riteneva inadatto a scrivere su l’Unità e Rinascita. Era il 1967 e stava per cambiare tutto. «La lettera di Alberto Mondadori, pubblicata non molto tempo fa – spiega adesso Andreose – era un secco ridimensionamento non un licenziamento. Però sembra l’ordine di servizio di un direttore del personale e questo suonava certamente offensivo dopo tante lettere precedenti calde e amichevoli. L’editore era angosciato dalla crisi del suo progetto e il raffinato letterato, l’intellettuale sopraffino, era diventato una figura superata di fronte all’aggressività del mercato». Poco dopo Debenetti ebbe un infarto, morì di crepacuore.
Tra le righe, ho sentito aleggiare qua e là l’aria del Don Giovanni; torno alle attitudini del mestiere e chiedo: e l’arte della seduzione per conquistare nuovi autori e l’esercizio della gelosia editoriale per tenerseli?
«Sono cresciuto alla scuola di Valentino Bompiani – risponde Andreose – Negli archivi della casa editrice ci sono ancora le sue lettere, da direttore editoriale ho continuato a mandarle agli autori nello stesso stile. Scriveva: a me non interessa il suo libro, a me interessa l’autore. Come dire, vieni con me per tutta la vita». Vuol dire che un diamante è per sempre, un fidanzamento artistico? «Esattamente, e non era un artificio, era un investimento anche sentimentale. Gli autori entrano nella famiglia, ti sono presenti anche quando non c’è un loro libro in lavorazione, restano interlocutori perfino da morti. Quanto all’esercizio della gelosia editoriale, ricordo che Valentino si è sempre difeso con furore dai furti dagli editori più grandi. Era stato segretario di Arnoldo Mondadori e, quando si era messo in proprio, non sopportava attacchi dagli amici. Nei primi anni Ottanta, convinsi Andrea De Carlo, orfano dell’Einaudi, a venire in Bompiani, ma Leonardo Mondadori me lo soffiò con un assegno d’importo più alto. Lo raccontai a Valentino che a Venezia, alla Scuola dei Librai, fece a Leonardo una sfuriata tale da far rientrare lo scippo. E’ stata una lezione: anch’io ho imparato a farlo e non sto a dire cosa è successo, col pathos della gelosia, quando ho passato la mano a Elisabetta Sgarbi …».
Ecco, l’armamentario sentimentale dell’editore contiene questi arnesi, ma il mondo di oggi è un altro: ogni libro è un individuo tutto solo per il mondo, altro che fidanzamenti artistici … «Non ci credo, non credo alla religione del best seller e del botto, che naturalmente se capita è benvenuto; nel rapporto con gli autori non conta solo il successo, a volte ci sono solo piccole affermazioni da nutrire per dare continuità al catalogo. E un catalogo è fatto performance alte, medie e piccole».