Barak, Bruce e la “questione maschile”

Uno stil nuovo. Essere e dirsi uomini nel dialogo tra Obama e Springsteen

La copertina di "Renegades" il libro di Barak Obama e Bruce Springsteen

Le donne non sono abbastanza spavalde e aggressive? È questo che ci marginalizza? Mah, da un bel pezzo l’aspetto più interessante della faccenda non è la soggettività femminile. Così largamente esplorata e raccontata fino alla noia anche nei  lati più complici verso l’assetto per nulla naturale delle cose. È la versione maschile che si ascolta poco, il mutamento in corso nei ruoli sociali visto dagli uomini.  Temo sia  la “questione maschile” l’aspetto più ombroso e meno analizzato.

Per questo allarga il cuore quella parte del dialogo tra Barak Obama e Bruce Springsteen su che cosa significa essere un uomo. Ne hanno fatta di strada i ragazzi della nostra generazione, che adesso hanno i capelli bianchi.  A dire il vero, i due non sono propriamente della stessa generazione. Il Boss ha 72 anni e il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti  ne ha 60. Entrambi sono però stati giovani in quel fatale decennio che va dal 1968 al 1978 e, accanto alle loro coetanee, hanno vissuto un’impensabile evoluzione dell’essere e dirsi donna.

Potevano restare fossilizzati all’uomo di prima?  Certo, ci sono i dinosauri che hanno maturato smisurati risentimenti e sono andati a ingrossare le file degli inneggianti a  Donald Trump. Ci sono quelli che sono finiti tra i suprematisti bianchi e i sovranisti mascherati da vichinghi. Quelli che menano e uccidono perché si sono disintegrati e quelli che si sono adattati senza capire. Ma per fortuna ecco qui anche loro: quelli che hanno vissuto i conflitti modificando il loro paesaggio interiore, gli uomini che si sono trasformati e molto hanno amato i figli, desiderando fare i padri, portandone l’abito emotivo e non solo quello normativo o giuridico. Ora quei vecchi ragazzi si guardano indietro,  seduti sulla vita vissuta a bere una pinta di birra, e parlano del senso di dirsi uomo. Mostrano il vuoto di riferimenti che hanno patito, l’assenza dei loro padri, la difficoltà di inventarsi un modo tutto personale di vivere la mascolinità: è qui che viene fuori un altro modo di essere, un nuovo stile.

Le parole corse tra Obama e Springsteen  si possono  ascoltare in un podcast disponibile su Spotify e leggere in Renegades. Born in the Usa, il libro che ne è nato, pubblicato in Italia da Garzanti  e tradotto da Giuliana Mancuso e Paolo Lucca, con un corredo di fotografie e materiali inediti usciti dai loro archivi personali. I due sanno di avere avuto un destino che li ha resi sensibili, consapevoli dell’importanza del discorso sulla mascolinità: un buio originario.

Come fai a diventare uomo se non conosci tuo padre?

Obama e Springsteen mentre registrano il podcast

Il padre di Bruce era un operaio irlandese, veniva dall’America rurale e andava a scuola a cavallo, lasciò gli studi a 16 anni e, appena sposato, fu preso a lavorare alla Ford. Era un uomo riservato, mai disse di sé e mai si seppe dove andava quando spariva regolarmente, un giorno alla settimana. Suo figlio ha dovuto rassegnarsi all’idea che fosse “inconoscibile”. Bruce non è mai riuscito a creare alcuna intimità con il suo genitore e, per sostituirlo, è diventato lui: saliva sul palco vestito da operaio, cantava la sua vita, il suo dolore inascoltato. Quando ha incontrato sua moglie Pat, ha compreso che quel modello era “fottutamente distruttivo” e lasciava il suo io più profondo fuori dalla porta.

Barak non ha mai avuto suo padre accanto e ha dovuto “costruirselo” da sé, con gli uomini che ha avuto intorno: il patrigno indonesiano, il nonno bianco con il quale è cresciuto alle Hawaii e poi il suo vero padre africano, che a un certo punto è tornato dal Kenya, dove nel frattempo si era risposato, per stare un mese con lui. Quel padre nero bellissimo e carismatico, che era passato dal pascolare le capre in minuscolo villaggio agli studi di economia a Harvard con una borsa di studio. Questo aveva fatto di lui un essere “intellettualmente superiore a molti”, ma “emotivamente segnato e danneggiato”. Quando Barak capì che, per conoscere se stesso, doveva andare in Kenya e incontrare quell’uomo, Obama senior moriva in un incidente d’auto a soli 46 anni. Barak  è cresciuto con l’icona  del padre ideale –  l’ economista brillante appassionato di jazz e di basket – ma l’uomo che c’era dentro era difficile,  aveva seminato rabbia e distruzione.

Barak e Bruce si sono alimentati, come tutti i ragazzi, della cultura popolare americana, dove la figura maschile si definisce attraverso “l’esaltazione della forza fisica e la capacità di sopprimere i propri sentimenti”; dove “il successo si misura su ciò che si possiede e sulla capacità di dominare, piuttosto che sulla capacità di amare e di prendersi cura degli altri”. Hanno lottato con i loro fantasmi, riconosciuto il maschile tossico dei propri genitori, sanno di dovere alle loro compagne, e alle figlie, parte del loro equilibrio interiore. E’ interessante la via d’uscita indicata dal Boss: “Il trucco è trasformare i fantasmi in antenati. I fantasmi ti perseguitano. Gli antenati camminano al tuo fianco….”

Nessuno di noi (donne e uomini) adotterebbe il comportamento degli antenati, però ci lasciamo ispirare da loro per quanto di buono possono ancora dirci sul senso della vita e sulla possibilità di non sprecare il poco tempo che abbiamo. Non so voi, a me questa idea piace. Da ragazza ho messo in subbuglio il mondo, ma è stato il disincanto a far tramontare l’idea dell’uomo nuovo: solo le ideologie totalitarie cercano di piegare l’umano. Invece mi interessano la consapevolezza, la fine del riflesso condizionato, il declino dei modelli per cui essere donna o uomo è un copione già scritto  e puoi solo  adeguarti. Dargli un significato personale, trovare il proprio modo d’essere e stare al mondo, è un processo che dura tutta la vita. Bello è sapere che questo percorso lo stanno facendo anche molti uomini e che ora ne parlano liberamente. Raccontano la loro sofferta e imperfetta storia.

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