A Roma il 1975 fu un anno orribile. Qualcosa di più della violenza dei neri e dei rossi che sparavano e uccidevano per strada. Qualcosa di folle, di cupo e minaccioso gravava sulla città e presto sarebbe spaventosamente deflagrato.
In una notte di fine settembre, una ragazza esile, completamente nuda e col viso scavato imbrattato di sangue, sbucò dal bagagliaio di una 127 bianca. L’auto era parcheggiata in una strada del Nomentano e un metronotte aveva forzato la serratura del baule perché qualcuno gridava chiuso lì dentro. La ragazza per sopravvivere aveva dovuto fingersi morta e dunque usciva da una tomba, era rimasta ore abbracciata al cadavere di un’ amica. Mai dimenticheremo la foto di Donatella Colasanti con il naso rotto e quei grandi occhi chiari ancora spalancati sull’abisso. L’altra ragazza, quella che dall’inferno non era tornata perché era stata affogata nella vasca da bagno di una villa del Circeo, dopo trenta ore di sevizie e abusi, avrà per sempre il sorriso ingenuo dei suoi diciannove anni, fissato dalla fototessera che la identificava come Rosaria Lopez.
L’impressione fu enorme. Ero una cronista ventenne, andai al processo di Latina per i fatti del Circeo, ho ascoltato gli avvocati della difesa dei tre assassini dire che nulla sarebbe successo se le ragazze non si fossero fatte rimorchiare dagli imputati. Tre tipi della Roma bene, militanti di gruppi neofascisti, che sarebbero poi stati condannati all’ergastolo. Solo uno di loro, Angelo Izzo, è ancora in carcere: durante un permesso premio, ha nuovamente ucciso due donne, madre e figlia. Gianni Guido ebbe la commutazione dell’ergastolo in trent’anni di pena, perché i suoi pagarono un risarcimento milionario alla famiglia di Rosaria Lopez. Mentre il terzo, Andrea Ghira, rimase latitante e si arruolò nella Legione straniera, è sepolto in un villaggio del Marocco dove è morto di overdose.
Ho conosciuto Donatella Colasanti e visto il peso della tragedia gravare sulle sue fragili spalle. Forse non c’è nulla di più osceno dello spettacolo della cronaca nera. E nulla di più pesante dell’odio e del disprezzo che aveva sopportato lei, quando si era finta morta perché aveva una cinta di cuoio intorno al collo e quello che stringeva tenendole un piede sul petto, stava dicendo: “ Ma questa non muore mai!”. Donatella è morta di tumore a soli 46 anni.
Un mese dopo i fatti del Circeo, Pier Paolo Pasolini sarebbe stato massacrato di botte, investito ripetutamente da un’automobile e poi lasciato morire in uno squallido campetto all’Idroscalo di Ostia. Le ferite che squarciarono quell’autunno furono uno di quei traumi collettivi che segnano un’epoca: nulla è stato più come prima, e ancora oggi affacciarsi su quel pozzo nero dà le vertigini. Avevano qualcosa in comune quelle due atroci storie di sevizie, violenza e morte? Furono delitti sessuali o crimini politici? Non voglie entrare in questo tunnel che, lo sappiamo da tempo, porta in nessun posto. Qui mi interessa soltanto la contiguità temporale: quel clima terribile si era materializzato in due eventi di ferocia inaudita.
Del delitto del Circeo si torna a parlare perché ora Stefano Mordini ha tratto un film
da “La scuola cattolica”, il poderoso libro – romanzo, saggio, memoir, inchiesta letteraria – con cui Edoardo Albinati, compagno di scuola dei tre assassini in un liceo privato di rango, ha vinto il Premio Strega nel 2016. E nel film di Mordini, quest’ala nera, il cupo abito dei tempi, si sente molto poco.
L’intera vicenda è restituita alla dimensione di una molecolare e un po’perversa mala educación. La formazione dell’identità maschile in un quartiere alto borghese della capitale, mescolata alla pericolosità insita nelle pulsioni contraddittorie dell’adolescenza, che esplodono non governate e non filtrate da adulti – genitori e insegnanti – prigionieri delle loro miserie ben celate dietro lo scudo del denaro e del privilegio sociale. Figli incamminati sulla via del male, sempre necessario al trionfo del bene come insegna il professore di filosofia nella loro scuola confessionale. Ragazzi che, come spesso succede, crescono invisibili allo sguardo di genitori troppo presi dai loro dèmoni personali. Nel film, vietato ai minori di 18 anni, non c’è propria nulla che possa sconsigliarne la visione ai sedicenni. Anzi, è utile discuterlo con gli adolescenti.
Ma certo il salto tragico dalla stupro all’assassinio, l’estrema potenza della violenza di quelle trenta ore nella villa del Circeo, restano sfocate e incomprensibili. Intendiamoci, un film non deve spiegare. E la forza della malvagità spesso è davvero nell’incomprensibile. L’equivalente contemporaneo del massacro del Circeo sono i fatti, avvenuti sempre a Roma nel marzo del 2016, con l’omicidio di Luca Varani, invitato a un festino di sesso e droga da due ragazzi di buona famiglia, che poi l’hanno crudelmente seviziato, abusato e infine ucciso. Nicola Lagioia ne ha tratto il romanzo “La città dei vivi”.
Mordini ha fatto un film sulla mala educación nella scuola dei preti, dove restano confusi e debolmente evocatati gli ingranaggi mentali che conducono al crimine e il clima storico in cui avvenne. È vero, il libro di Albinati dedica un solo capitolo, nelle sue quasi duemila pagine, ai fatti del Circeo. La sua monumentale e disperata ricerca scava nelle radici culturali dello stupro, nella necessità di dominare la donna come fondamento di un’identità maschile continuamente messa alla prova. Ricostruisce il paesaggio del sessismo che tutti hanno interiorizzato e che, per fortuna, legittima comportamenti estremi soltanto in alcuni. Impossibile rendere questa complessità in un film. Si doveva scegliere una storia e Mordini giustamente l’ha fatto. Però quella non è una storia qualunque, ha segnato un’epoca ed è stata qualcosa di più di uno stupro di gruppo deragliato. E questo il film non riesce a trasmetterlo.
“La scuola cattolica” di Edoardo Albinati è pubblicato da Rizzoli, “La città dei vivi” di Nicola Lagioia da Einaudi