Una questione di luce. Da studiosa del Rinascimento lei lo sapeva bene. Dunque è giusto, dopo più di un secolo, che madame Bellonci, l’animatrice del salotto letterario più importante e chiacchierato del dopoguerra, faccia un passo indietro e restituisca luce a Maria, la scrittrice.
Mentre si chiude l’anno bellonciano – il centoventesimo dalla nascita – e la casa-museo dove si celebrano i riti del premio Strega è appena stata aperta al pubblico, lasciamo sullo sfondo l’icona della mondanità letteraria. Quella che sapeva giocare con vistosi gioielli, guanti di pizzo e mantelli di velluto; quella che si fece una gran risata guardando quell’episodio dei Mostri di Dino Risi, intitolato La musa, con Vittorio Gassman en travesti nella parodia della patronessa di un premio letterario.
Elsa Morante riferì che Maria Bellonci rise di gusto, poi si voltò e ingiunse mondana: “Se provate a dire che quella sono io, vi denuncio!”. L’ha raccontato Luca Scarlini, che in settembre ha messo in scena a Mantova il Febus, un testo bellonciano su Vespasiano Gonzaga rimasto incompiuto.
Vero o falso sta nella leggenda streghesca, nata nel 1944 non nella casa romana di via Fratelli Ruspoli, oggi visitabile tutti venerdì – acquistando il biglietto sul sito della Fondazione Bellonci – ma nelle quattro stanze tappezzate di libri in viale Liegi, dove la padrona di casa si alzava alle cinque per preparare due torte con ingredienti comprati alla borsa nera. La signora aveva solo nove tazzine bianche e celesti per servire il tè agli amici della domenica, che andavano a scambiare idee sui libri che avevano in lettura. Tra i primi c’erano Bontempelli, Paola Masino, Piovene, Petroni … Il sodalizio divenne premio letterario nel 1947 grazie a un mecenate di talento, Guido Alberti: la sua famiglia, produttrice del famoso liquore Strega, investì duecentomila lire.
Seguono i fasti e i colpi di scena del romanzo rinascimentale ambientato al Ninfeo di Villa Giulia. Cardarelli che travolge Anna Banti nel 1948; “Il Gattopardo” che straccia “Una vita violenta” di Pasolini nel ’59; Pavese che si uccide un mese dopo aver vinto con “La bella estate” nel 1950; Calvino che, come Pasolini, resta sconfitto e perde per ben due volte: contro Moravia nel ’52 e poi contro Michele Prisco nel 1966… Eventi che si accavallano lungo la prima, la seconda e la terza repubblica. Maria Bellonci ricordò quelli dei suoi tempi in un memoir del 1970, “Come un racconto gli anni del Premio Strega”, pubblicato da Mondadori come tutti i suoi libri.
Maria era assolutamente consapevole “di aver architettato una polveriera” e dolorosamente conscia che questa attività le aveva divorato quasi tutte le energie, “con danno piuttosto grave” al suo lavoro di scrittrice. Allora stringiamo l’obiettivo su di lei, che era nata a Roma nel novembre del 1902, figlia di un chimico piemontese, il professor Villavecchia, e di una silenziosa madre “etrusca”.
La signorina Villavecchia era cresciuta in via Farini, vicino a Santa Maria Maggiore e andata a scuola dalle monache a Trinità dei Monti, poi al Liceo ginnasio Umberto. A vent’anni Maria Villavecchia aveva già scritto il suo primo romanzo, “Clio e le amazzoni”. Dotata di un’intraprendenza fuori dal comune, lo aveva portato a Goffredo Bellonci, uno dei critici militanti più importanti dell’epoca. Le consigliò di lasciare “Clio” in un cassetto e di approfondire la sua formazione. Lei lo fece.
Goffredo Bellonci scriveva sul Giornale d’Italia, diventò il suo mentore e la sua guida, la introdusse nel mondo letterario. Maria ricorda “gli occhi aguzzi di Cardarelli che mi esploravano”. Nel 1928 Goffredo diventò suo marito, aveva vent’anni più di lei. Matrimonio religioso a Santa Maria degli Angeli, vestita di raso bianco “con quattro veli di strascico”; rito civile in municipio con “abito di crepe georgette gris perla”. “Ero molto carina? Pare di sì. Snellissima, bruna con vitino”.
L’attenzione ai dettagli ha la sua importanza: luci, scenografie, costumi, gioielli nei suoi libri parlano, hanno significati simbolici come nella pittura che è stata una delle sue fonti privilegiate. Goffredo e Maria studiano quadri e monumenti, leggono insieme: “Quando ci sposammo, lui mi fece lezione sui classici per anni. Abbiamo letto tutto a due voci: Guicciardini, Tasso, Boiardo, Ariosto …”
Maria Bellonci è nata così. Iniziò a scrivere sul Popolo di Roma, teneva una rubrica intitolata “L’altra metà” e in pieno fascismo – siamo nel 1929 – criticava i concorsi di bellezza e parlava del “fermento grandissimo che agita le anime femminili”: difficile definirlo ma certo è “teso a cercare una forma di vita inedita”. Quando le proposero di lavorare sul catalogo dei gioielli di Lucrezia Borgia, restò folgorata da un’armilla con un’ incisione interna, un distico di Pietro Bembo, grande umanista e tenero corrispondente della duchessa di Ferrara, figlia illegittima del papa e sorella del Valentino, consegnata a una leggenda di pugnali e veleni. Così nel 1932 cominciò le ricerche d’archivio in Vaticano, a Mantova e Modena: “Lucrezia Borgia e il suo tempo”, che ora è tornato in edizione cult negli Oscar, con prefazione di Giulia Caminito, fu pubblicato nel 1939 e quell’anno vinse il premio Viareggio opera prima.
La parabola di Maria Bellonci scrittrice sta tra Lucrezia Borgia, che segna un fortunato esordio, e sua cognata Isabella d’Este che, in quel primo libro, è solo una comparsa, la moglie tradita di Francesco Gonzaga, amante della bellissima protagonista. Eppure Isabella d’Este era destinata a crescere dentro di lei e ad accompagnarla per tutta la vita. Diventa protagonista di un racconto ne “I segreti dei Gonzaga”, pubblicato nel 1947, ed è la voce narrante di un’autobiografia immaginaria nel suo romanzo più celebrato e più bello: “Rinascimento privato”, scritto negli ultimi anni e incoronato da uno Strega postumo.
Lucrezia sta alla giovane autrice fotografata negli anni Quaranta, con una camicetta bianca ricavata dall’abito da sposa a illuminare il viso con una maliziosa fossetta sul mento, tipo Ava Gardner, come Isabella sta alla figura matronale della maturità. L’icona rimasta impressa nella memoria della mondanità letteraria. Nella sua prefazione all’edizione cult di “Rinascimento privato”, ripubblicato negli Oscar, Melania Mazzucco centra perfettamente la questione. Da giovane Maria è in sintonia con Lucrezia, sottrae quella creatura guidata dalla forza delle passioni alla sua aura maledetta, prova una certa antipatia per Isabella e per la sua “natura politica”, di donna di potere capace di calcoli gelidi. Nella maturità invece riuscirà a capirla: nel frattempo, e grazie al premio Strega, era diventata donna di potere anche lei.
A Lucrezia che non aveva ucciso né avvelenato, ma certo non aveva potuto impedire che lo facessero i suoi, poco importava del potere. Maria Bellonci continuò a chiedersi perché quella ragazza bellissima avesse catalizzato su di sé così tanta ombra. E riuscì a darsi risposta solo molti anni più tardi, salendo su un impalcatura, nelle Sale dei Borgia in Vaticano, per vederla da vicino raffigurata dal Pinturicchio. Lo scrive in “Segni sul muro”, che si trova nel primo volume dei Meridiani Bellonci, curati da Ernesto Ferrero. L’avversione che aveva circondato Lucrezia era pari all’eros che “soffiava” da lei, l’eros totale che le aveva fatto scegliere come motto una strofa di Pedro de Estuñiga: “Io penso che se morissi…/tutto il mondo rimarrebbe senza amore”. Era la vera sorella di Cesare Borgia, conclude Bellonci, sia pure “disarmata e mansueta”, giacché “simile all’esigenza prensile e selvaggia che dominò il Valentino fu la sua esigenza di essere amata”.
Quanto a Isabella d’Este, la storia è molto più complicata. “Rinascimento privato” è un’operazione iperletteraria, scritto in una lingua inventata e anticata per rendere il parlato di corte del Cinquecento. Fino dall’ incipit con Isabella nella stanza degli orologi a interrogarsi sul tempo, “Il mio segreto è una memoria che agisce a volte per terribilità”. Eppure è un romanzo modernissimo. Gli spettatori appassionati della serie sui reali d’Inghilterra The crown qui troveranno una analoga descrizione del potere come regno della finzione, dove la recita e la capacità di stare nella parte (senza uscirne) è la condizione per restare in sella.
Però quella era una corte del Cinquecento e lì la simulazione serviva a salvarsi la vita. Isabella/Maria conosce la politica degli uomini e quella “donnesca”: sa che bisogna accettare la virilità, e salvaguardarla anche per se stesse; sa che gli uomini si sdegnano delle “arditezze” e che “bisogna procedere su un filo teso da giocoliere”. In definitiva Bellonci sa che le donne sono dentro, non fuori dalla storia e innocenti perché escluse: accorgersene o no è una questione di punto di vista, di narrazione si direbbe oggi.
“Rinascimento privato” nacque da una sceneggiatura scritta per la Rai, a quattro mani con Anna Maria Rimoaldi, diventata inseparabile amica e collaboratrice di Maria dopo la morte di Goffredo Bellonci, avvenuta nel 1964.
Lo sceneggiato, molto costoso, non si fece. La Rai però realizzò “Delitto di stato”, adattato per la tv sempre con Rimoaldi. Fu lei, insieme con Giuliano Montaldo, a spingere la scrittrice ormai ottantenne a tornare al romanzo. E quello sarà il suo libro più libero: si diceva “spietata” nelle ricerche, ma poi buttava tutto per reinventare; qui però mancava qualcosa, un catalizzatore. Quel qualcosa si trova nel Diario 1983-1986, pubblicato a cura di Stefano Petrocchi, in calce all’edizione cult di “Rinascimento privato”.
La chiave di volta fu la visita di un lettore canadese affascinato da “Lucrezia Borgia”. André Desjardins si presentò a casa Bellonci ma tacque il dettaglio non insignificante di essere prete. Più tardi scrisse per scusarsi dell’omissione e quella fu la prima di molte lettere. Maria Bellonci non rispose, neanche una volta, però trasformò Desjardins nell’unico personaggio fittizio di “Rinascimento privato”: il prelato inglese, informatore e ammiratore di Isabella d’Este, che le scrive dodici lettere utili a contestualizzare fatti che si collocano tra il 1500 e il 1533, in una narrazione che trascende il genere del romanzo storico come inteso fin lì.
Del rapporto tra André Desjardins e Maria Bellonci conosceremo particolari inediti in un libro in corso di pubblicazione, “Romanzo privato”, scritto da Stefano Petrocchi, che è direttore della Fondazione Bellonci e insieme già autore di un romanzo-inchiesta (“La polveriera”, Mondadori 2014), fatto di storie e fantasmi dello Strega e ambientato nelle stanze di quella che adesso è la casa-museo. Con l’archivio, la biblioteca di 24mila volumi, tele di Cagli e Capogrossi, Campigli, Morandi e De Pisis.
A casa Bellonci ci sono il Mafai che fu impegnato per pagare le tasse e i ritratti che Leonetta Cecchi Pieraccini fece a Maria. Non era ricca e non lo divenne, aiutava scrittrici più povere di lei, l’appartamento di via Fratelli Ruspoli era in affitto. Il nuovo libro di Petrocchi inizia il giorno del funerale della fondatrice, il 15 giugno 1986. Poche ore dopo saranno annunciati i candidati allo Strega di quell’anno, tra i quali Bellonci, che aveva costruito la suprema regia di quella rappresentazione.
“Voleva essere riconosciuta come scrittrice”, mi dice Petrocchi. “Non c’è chiave d’ingresso migliore per raccontare Maria che l’evento della sua morte, dove si ricongiungono le due linee temporali che avevano separato la sua vita: quella dell’autrice di romanzi storici tradotti in tutto il mondo, che arriva fino al 1947 e poi si interrompe, e quella dell’animatrice del più prestigioso dei premi letterari, che comincia allora. La notorietà e il potere che ne erano derivati avevano finito per eclissare la scrittrice, tornata al romanzo solo nei suoi ultimi anni febbrili”.
Naturalmente per “Rinascimento privato” ci fu un plebiscito, gli Amici della domenica offrirono una consacrazione alla fondatrice, che per anni – disse Gina Lagorio – “si era dedicata ai libri degli altri”. I proventi del successo del romanzo, rilanciato dal premio, andarono alla sorella e alla sua più stretta collaboratrice Anna Maria Rimoaldi, che prese il suo posto nell’organizzazione del premio e che li usò per creare la Fondazione. Nella casa-museo c’è anche un suo ritratto, realizzato in bianco e nero da Lorenzo D’Andrea: la coglie con un’espressione da ammiraglio, con lo sguardo dell’aquila. Oggi si scrive e si dice che fu la compagna di vita di Maria Bellonci. È stato così?
Certo hanno vissuto insieme in questa casa, con la gatta e la governante Luigina. Certo Rimoaldi è stata la persona più presente e vicina a Maria dopo la morte di Goffredo Bellonci, ne ha sempre parlato con devozione, e insieme scrivevano per il teatro e per la tv. Chiedo a Stefano Petrocchi, che mi fa notare: “Nelle carte di Maria Bellonci finora non ho trovato cenni a un legame sentimentale tra loro e Anna Maria Rimoaldi ha sempre detto che si sono date del lei fino alla fine, fino all’ ultimo giorno”.
Resta un piccolo mistero, quello che sappiamo e che possiamo aggiungere si trova nell’ introduzione di Fausta Garavini al Meridiano di Anna Banti, amica-rivale e in un certo senso “specchio” di Bellonci: il loro rapporto si estinse, leggiamo, con l’ingresso di Rimoaldi nella vita di Maria. Questa storia fu poi trasfigurata da Anna Banti nel racconto intitolato “De amicitia”: qui si evoca il salotto di Marta, dove tutti si danno del tu, e la sua nuova amica, che “divenne la sua compagna quotidiana e che a poco a poco la dominava, adorandola”.