A Madrid l’inverno freddissimo del 1945, il più freddo dal 1567, fu decisivo e crudele. Certo che lo fu, erano gli ultimi mesi di guerra. Ma qui, il gran terremoto della sconfitta dell’asse nazifascista prese un’altra piega. In primavera, Hitler si sarebbe suicidato nel suo bunker berlinese e Mussolini, fucilato a Dongo, sarebbe stato appeso per i piedi a Milano, a piazzale Loreto. Il caudillo che in quell’inverno era in bilico come gli altri, sarebbe invece rimasto al suo posto per altri trent’anni. Franco che senza entrare nel conflitto aveva silenziosamente supportato l’asse capovolse a suo favore l’esito della guerra.
Per proseguire nell’avvincente lettura di questa storia madrilena conviene tenere a mente due date: 11 febbraio, a Yalta, i vincitori stabiliscono il ripristino della democrazia nelle zone liberate e dividono l’Europa in sfere d’influenza, sta per iniziare la guerra fredda; 25 febbraio, a Madrid, un gruppo di partigiani comunisti assalta un sede della falange con l’ordine di sparare a tutti, eccetto le donne e i ragazzi del Fronte della gioventù. Trovano due poveracci di cui nessuno ricorderà il nome e li ammazzano sparando loro ripetutamente alla nuca, sono Martín Mora e David Lara, un falangista e un portiere.
Il seguito di quell’azione insensata saranno undici arresti, sette condanne a morte e lo smantellamento, nei mesi successivi, della rete clandestina del Pce. Il risultato politico immediato fu invece una grandiosa e imprevista manifestazione a sostegno del regime: più di 250mila in piazza – se i numeri sono giusti, un quarto della popolazione madrilena – il giorno dei funerali delle vittime dell’attentato. Notizie di azioni partigiane allora non se ne davano, quella ebbe invece risalto con dovizia di dettagli. Un clamore enorme, paura di una ripresa della guerra civile ufficialmente finita nel 1939 e mai sopita: il caudillo che si stava adattando agli sviluppi geopolitici, cavalcò abilmente le emozioni del momento e gli errori dei suoi nemici. La guerriglia continuò per altri due anni secondo le indicazioni di Mosca, lo stato di guerra fu prolungato fino al 1948, Franco riuscì a ingraziarsi gli anglo americani.
La storia dell’attentato di Cuatro Caminos rivive come fastoso affresco d’epoca in un libro di Andrés Trapiello, scrittore di culto per il suo “Salón de pasos perdidos”, monumentale diario in progress che ha già superato i venti volumi. Poeta, editore e gran conoscitore di Madrid, Trapiello aveva già scritto anni fa una ricostruzione narrativa di quei fatti e di quei giorni, ispirato dal ritrovamento di uno scartafaccio della Sicurezza nazionale. Nel frattempo però sono stati digitalizzati e aperti nuovi archivi, in particolare quello del Partito comunista spagnolo con i famigerati “rapporti sui compagni”, redatti in perfetto stile staliniano con critica e autocritica. Così Trapiello ha approfondito le ricerche e riscritto tutto, arrivando a conclusioni diverse. “Madrid 1945. La noche de los Cuatro Caminos”, pubblicato da Destino, si basa su un’eccezionale documentazione, che consente di vedere le cose da più punti di vista. Già autore di “Las armas y las letras. Literatura y guerra civil”, con le storie coraggiose, ambigue o turpi di scrittori e poeti del tempo, Trapiello è tradotto in Italia da Neri Pozza.
“Madrid 1945. La noche de los Cuatro Caminos” non è il lavoro di uno storico, è un magnifico reportage, un viaggio nel tempo attraverso documenti e testimonianze dei sopravvissuti e dei loro discendenti a potenziare un racconto vivido e fiammeggiante, corredato di mappe, schede, ritagli di giornali, manifesti e vecchie fotografie inedite per guidare il lettore. La piccola storia di un manipolo di uomini e donne, allora tutti giovani, illumina quella più grande di una città affamata, di un paese piegato e dell’Europa in rovine. E’un libro-museo, ha scritto El Pais. E a chi gli chiedeva perché non ne ha fatto un grande romanzo, oggi che per farsi leggere si tende a “travestire” tutto da fiction, Trapiello ha risposto no, nessuna confusione tra realtà e immaginazione, sarebbe mistificante. Lui vuole che si sappia che tutto è accaduto veramente: sì, nel 1945 davvero si assoldavano i pugili perché nelle caserme non ce la facevano a picchiare e a torturare professionalmente gli arrestati; sì, i comunisti a quel tempo pagavano mille peseta per ogni morto.
Basta sbirciare la brutalità dei numeri: più di 270mila prigionieri politici nel 1940 e 500mila in campo di concentramento in tutta la Spagna, diecimila incarcerati solo a Madrid dove si sapeva delle torture e dove il 17 per cento della popolazione aveva avuto almeno un amico o un parente coinvolto. Al ministero degli Interni lo stato di polizia ha lasciato dietro di sé cinquecento metri lineari di fascicoli di cittadini schedati. I fucilati dal 1939 al ’45 furono 40mila, tremila nella sola Madrid, 350 nell’anno di disgrazia in cui questa storia si compie.
Erano giovani, generosi e coraggiosi quelli che assaltarono la sede della falange nel barrio di Cuatro Caminos. “Esseri di tale puro idealismo che non esitavano a farlo accadere, se necessario, con fanatismo e crudeltà”, scrive Trapiello. Allora, tra i comunisti, pochi superavano i trentacinque anni e molti erano passati per le prigioni e i campi di concentramento. Non avevano quasi nulla da perdere, rischiavano di morire in azione o di essere arrestati e torturati, “obbedivano con fede cieca al partito che temevano quanto la polizia”. Soldati mandati allo sbaraglio da dirigenti che vivevano al sicuro, all’estero, dove si disputavano la leadership: mai ammisero l’errore commesso. Leggendo pagine e pagine di rapporti interni negli archivi del Pce, Trapiello si è convinto che molti mentissero per paura e che ognuno parlasse “nella forma il più favorevole a se stesso, deviando i sospetti su altri”. Se possibile su compagni già morti, fuggiti o già considerati delatori, provocatori, dissidenti. Il comandante dell’azione di Cuatro Caminos fu usato come martire nella propaganda esterna e – si legge nella documentazione d’archivio – infamato come traditore nei rapporti interni: “Non ho avuto il coraggio di raccontare queste miserie a voce, a Manuela Vitini che mi ha fornito fotografie e informazioni su suo padre”, annota Trapiello.
José Vitini è l’eroe sacrificato dentro questa brutta storia. Nato a Gijón nelle Asturie nel 1912, combattente della guerra di Spagna riparato in Francia nel 1942, era entrato nelle file del Maquis, dove divenne tenente colonnello della resistenza francese e contribuì alla liberazione dall’occupazione nazista. A Tolosa, c’è una strada intitolata a José Vitini e a suo fratello Luis – entrambi fucilati dai franchisti nel 1945. Era lui a comandare il gruppo che assalì la sede della falange nel barrio di Cuatro Caminos. Entrarono, spararono e poi uscirono in strada mescolandosi alla gente che aveva partecipato a una festa giusto lì davanti.
Come fu che un uomo valoroso, esperto come Vitini si spese in un’azione tanto inutile e spietata? Un tragico abbaglio, letteralmente vedere quello che non c’era: chi tornava dal Maquis pensava di continuare la guerra di guerriglia, come in Francia, fino alla liberazione. Non si rendeva conto che il contesto era diverso e che stava rapidamente cambiando, le sole informazioni di cui disponeva erano quelle che passava la propaganda di partito, menzognera quanto quella del regime. “Ci fu un grado di allucinazione gigantesco”, ha spiegato Trapiello a El Mundo. “Se avessero detto che dopo Grecia, Sicilia e Normandia gli alleati sarebbero sbarcati in Spagna, ci avrebbero creduto”. La guerra di guerriglia servì solo a rafforzare Franco e, per salvare la vita a Vitini, ci fu un’inutile campagna internazionale e interna, con l’adesione di numerose personalità. Davanti al plotone d’esecuzione lui disse: “Non perdete la speranza, il fascismo è sconfitto, viva la Repubblica!”
Se l’eroe tragico è José Vitini, ora Andrés Trapiello illumina anche altri due personaggi. Il primo è José Manzanares, di professione fotografo e segretario dell’organizzazione del Pce; riuscì a sfuggire agli arresti che portarono i suoi compagni al plotone d’esecuzione, ma fu preso in Galizia alla fine del ’45 e parlò, causando l’arresto di un compagno. Liberato in circostanze mai chiarite e aiutato a espatriare dai servizi segreti americani ai quali passava informazioni (non è chiaro se il partito ne fosse a conoscenza), Manzaneres fuggì a New York e di lì in Messico. Da allora visse precariamente, gravato dal sospetto di essere un traditore. Con lui c’era anche Carmen Moreno, una ragazza romantica e audace: “Una Marianna Pineda di cui chiunque si innamora. Io stesso. Tu anche, di sicuro”, dice Trapiello al lettore.
Caduta con il fidanzato nella retata che seguì i fatti di Cuatro Caminos, rilasciata ed espatriata, Carmen Moreno conservò le amorose lettere scritte al suo uomo prigioniero e un memoriale in cui riferiva le torture subite dai sui compagni. “Un mese nella direzione generale della Seguridad equivaleva a un anno nell’inferno di Dante”. La testimonianza della figlia di Carmen e i documenti che ha potuto fornire sono stati fondamentali per questa ricostruzione. Ecco allora le novità: vent’anni fa Trapiello sospettava che i rilasciati che riuscirono a fuggire all’estero fossero stati confidenti della polizia, le reti cospirative erano pesantemente infiltrate, si sa; oggi invece scrive di avere “la ragionevole e ragionata certezza” che i fuggitivi “lavorassero contemporaneamente, e all’insaputa del comitato centrale, per i servizi segreti americani, cercando negli americani la protezione personale che il partito non gli avrebbe dato”.
La vita andò a perdersi negli anfratti di una città sordida, nei fondi umidi delle galere, davanti al plotone d’esecuzione, nel vuoto d’identità dell’esilio successivo alla fuga. Dove porta questa poderosa ricerca, cinquecento pagine di racconto del 1945, a Madrid, quando la guerra civile era ancora lì sotto la cenere, mai del tutto spenta? Intorno a questo libro, molto recensito e discusso, colpiscono due considerazioni. La prima è che la guerra civile è descritta come tragedia senza ritorno, irrisolvibile come nel teatro antico. Dalle guerre civili non si esce: semmai si possono superare, che è cosa diversa, e guarire è il compito delle generazioni successive. Significa disfarsi e abbandonare i ruoli di un tempo, l’apparato culturale e mentale che ha sostenuto e alimentato il conflitto. In Spagna – ricorda Trapiello – attori importanti e compromessi, come il segretario del partito comunista Santiago Carrillo e quello del Movimento nazionale Adolfo Suárez, hanno avuto una funzione importante nel facilitare la transizione democratica perché avevano smesso di essere ciò che erano stati: un comunista e un falangista. Senza questa precondizione nulla sarebbe stato possibile.
Il resto appartiene al confronto tra luce della storia e fumo della memoria. Si dice sempre che gli smemorati sono destinati a ripetere inconsapevolmente quello che fu. Qui la morale è un po’ diversa e la memoria appare ancora insufficiente, personale, selettiva, inquinata dalle ideologie del passato. Ognuno ricorda per sé. La memoria, per definizione, non può essere democratica, sostiene Andrés Trapiello. E qui sta la sua polemica esplicita contro la legge più volte riscritta, e ora approvata in Spagna in via definitiva, che si definisce appunto della Memoria democratica. Non tutti quelli che hanno combattuto la dittatura erano democratici e possono essere definiti così, talvolta furono insieme vittime e carnefici. Come accadde a Cuatro Caminos e nei due anni di successiva, inutile guerriglia. E come era successo nei primi mesi della guerra civile, quando furono uccise tra otto e diecimila persone per il solo fatto di essere cattoliche, andare a messa, avere in casa immagini religiose.
La memoria tende a rimuovere quello che non ci somiglia e non ci appartiene. É la storia che, a distanza di molto tempo, dovrebbe dare una visione d’insieme. E la storia non si fa per legge e non concede amnistie.