Il circo è tornato e non ha più nulla di nostalgico, di romantico, di zigano. Addio passato araldico, tigri elefanti domatori e grandi clown, addio tendoni saturi dell’odore selvatico delle belve. Qui siamo nella fantascienza tardo vittoriana, immersi nella tecnologia anacronistica, tra piccoli alianti, vecchi treni e sbuffi di vapore. Siamo in viaggio nelle profondità marine, dentro la pancia di un Nautilus e in compagnia di un bizzarro collezionista di oggetti scovati dentro dimensioni parallele: nella sua stanza delle meraviglie diventano creature antropomorfe e danno vita a una danza di stravaganze. In fondo la scienza è stata a lungo in competizione con la stregoneria e, alla vigilia della rivoluzione industriale, quando il fragore dei telai meccanici ha scacciato le fate dalle campagne, i cuori semplici guardavano gli scienziati come illusionisti o come maghi.
E allora eccoci tra l’uomo organetto – per cucire il costume di Nico, il sarto ha dovuto chiudercisi dentro per una settimana – e la donna antenna del telegrafo, Klara, che riceve onde elettromagnetiche. Le piccole contorsioniste in vesti art déco, rese trasparenti e luminose da coloratissimi costumi, si muovono in una danza di anguille elettriche, viaggiando appoggiate su una gigantesca mano. Ma non è come quella mozzata che fa la parte del gatto in casa Addams, è un argenteo mostro meccanico, un’installazione in stile steampunk, che avanza sulla pista azionata a pedali. Mentre acrobati vestiti come antiche e vibranti creature acquatiche volano su per quindici metri, lanciati dal salto sincronizzato su una rete ondeggiante come la superficie del mare. Lassù si aggrappano al laccio sospeso alla cupola azzurra, al pennone più alto. Alla prima di questo spettacolo mancava Mademoiselle Lili, l’artista piccina picciò in temporaneo congedo, alta solo un metro e che di solito esce a sorpresa – come un desiderio inconscio – da uno sportello nella pancia di cuoio di un omaccione detto signor Microcosmo. Lili ha la sua mini casa di bambola proprio là dentro.
Quando il Cirque du Soleil debuttò negli Stati Uniti con questo show che è intitolato Kurios, cabinet of curiosities, l’allora critico teatrale del New York Times, Charles Hisherwood, scrisse quasi piccato che qui l’obiettivo è sfidare la descrizione, renderla impossibile: per credere si può solo andare a vedere. La chiave è tutta nello stupore. Una vertiginosa sequenza di stranezze, acrobazie e prodezze servite con umorismo a un ritmo travolgente con musiche dal vivo. Ora il famoso team circense di Montreal, Canada francofono, fondato quasi quarant’anni fa dal mangiafuoco Guy Laliberté e da un gruppo di artisti di strada, e poi diventato un gigante dell’intrattenimento, ha ripreso questa sua consolidata produzione dopo i tre anni di fermo della pandemia costati licenziamenti dolorosi. Kurios è una novità per l’Europa e, dopo la Royal Albert Hall di Londra, è arrivato in Italia dove i partner sono Vivo Concerti e Show Bees.
Le Grand Chapiteau, il tendone a righe da duemilaseicento posti e la città viaggiante degli artisti provenienti da diciassette paesi diversi sono approdati a Roma, dove resteranno fino al 29 aprile per poi andare a Milano dal 10 maggio al 25 giugno.
Il tour ha una sua pesante routine, lo spettacolo è in evoluzione e perfezionamento continuo. La direttrice artistica Rachel Lancaster ne cura l’armonia, la fedeltà al progetto originario. Si prova tutti i giorni e ogni artista provvede da solo al trucco che può richiedere fino a due ore. Una volta, mentre si organizzava l’arena, pagliacci e giocolieri uscivano per la città a bandire lo spettacolo e la vendita dei biglietti. Federico Fellini bambino, nella notte, spiava dalla finestra il tendone del circo crescere e gonfiarsi con un respiro pesante, come una cosa viva. L’ha raccontato in quel piccolo capolavoro che è il suo finto documentario intitolato I clowns, dove si celebra – si era nel 1970 – la fine del vecchio circo, quello dove un popolo lunatico e affamato aveva trovato la sua ribalta comica, onirica, la sua codificazione simbolica. Adesso c’è il cirque noveau che è un’altra cosa, é circo acrobatico contaminato dal teatro musicale, dalla danza, dai videogiochi, dagli effetti speciali del cinema. Per bandire gli spettacoli ci sono le agenzie di comunicazione, i cantieri sono grandi opere d’ingegneria meccanica e i droni sfarfallano sopra il Grand Chapiteau per far viaggiare le immagini in rete.
Kurios è un emozionante spettacolo ibrido con la regia di Michel Laprise, dove gli ingredienti si combinano in una tessitura fastosa, realizzata grazie alle scenografie di Stéphane Roy, ai bellissimi costumi di Philippe Guillotel e con musiche originali di Raphaël Beau. Sono andata a vedere lo spettacolo con una domanda molesta: che cos’è davvero? La forza del circo era la sua semplicità, la struttura elementare, era in un Oh! bambinesco. Il vecchio circo è stato quanto di più vicino al linguaggio dei sogni, misterioso ma essenziale. Forse quel che ne resta qui è racchiuso in una sola scena, che rappresenta la matrice poetica dello spettacolo, un ricordo scherzoso: un comico direttore comanda un circo in miniatura con artisti invisibili e lo spettacolo si lascia immaginare solo grazie agli effetti sonori e al movimento degli oggetti.
Kurios è al contrario un meccanismo complesso, un caos apparente sintonizzato da un congegno scenico affascinante e un po’ cervellotico, come nei film di Tim Burton. È un’opera raffinata e ricca di ingredienti, dolce-salata-piccante, ma il sapore che resta alla fine qual è? Ci sono scene di delicato acting comico, ma non ci sono clown, figure iconiche del circo. Il pagliaccio che, viaggiando nel tempo e nell’immaginario, verso la fine del secolo scorso, si è trasformata anche in una delle maschere della paura, basta pensare a “It” di Stephen King.
Per giunta il flusso mediatico perenne ha inflazionato e banalizzato il modulo circense. Oggi circo è quasi tutto, qualunque sarabanda spettacolare. Il talk show corrotto dallo spettacolo con il critico aggressivo e la professoressa stronza, il gran carrozzone degli eventi di moda, il villaggio che gravita sulla Formula uno, senza dimenticare la politica fatta con “i nani e le ballerine”. Maurizio Costanzo, inventando il suo famoso show, ha fatto uso assolutamente consapevole e ironico della metafora del circense: un direttore coi baffi vestito di nero e il suo doppio – il pianista- quasi uguale ma vestito di bianco e in fondo la passerella con tutti che si inchinano a prendere l’applauso.
Ho appena letto “La rivoluzione in pista. Storie di donne, circo e libertà” pubblicato da Iacobelli, un piccolo originale saggio di Maria Vittoria Vittori che sui clown ai tempi del futurismo aveva già scritto un libro. Ho usato il suo lavoro come una lente per rimettere lo spettacolo dentro la sua storia. Guardando la bicicletta aerea sospesa a mezz’aria, con una bella bionda che sfida la gravità scuotendo i capelli setosi a testa in giù, pensavo che in fondo questo numero ricorda le cavallerizze immortalate da Chagal e da Toulouse-Lautrec.
Nel circo contemporaneo il posto degli animali è delle macchine, al posto del cavallo c’è la bici. A fine Ottocento le cavallerizze erano dive, colpivano l’immaginazione più delle ballerine, esercitavano un grande fascino suscitando non solo l’attenzione del pubblico e degli artisti – racconta Vittori – ma anche quella dei potenti. Famosa l’attrazione di Vittorio Emanuele II per la bellissima Emma Cisnelli, cavallerizza “di straordinaria abilità”. Non per nulla Contessa Lara, al secolo Evelina Cattermole Mancini, redattrice di spettacoli e cronaca mondana nei più importanti periodici romani dell’epoca, fece di una cavallerizza la trasgressiva protagonista del suo romanzo “Innamorata”.
Il circo è sfida alle leggi di gravità, nomadismo, mescolanza di lingue diverse, convivenza e ibridazione di discipline e di culture, è fatto per il sogno e amato da grandi sognatori, nasce dal desiderio inappagato di una libertà che si volatilizza sempre quando sta per essere raggiunta. E questa è una delle chiavi della comicità del clown, ha scritto Maria Zambrano che, nella risata, vide “un gesto pensante”. In Kurios c’è la comicità, ma non ci sono propriamente clown, né buoni né cattivi. Però il clown è comunque rimasto nel circo contemporaneo, come farne a meno per conservarne l’identità?
Il clown più famoso oggi è David Larible. Nel suo “Il pagliaccio e la filosofia”, Zambrano notò che “il clown non incarna nessun personaggio, piuttosto lo crea; scende in pista coperto da una maschera per meglio impiegare la propria anima…”. È il vero istrione. A Madrid, prima dell’avvento del franchismo e dell’esilio, Zambrano aveva visto Grock, il più grande clown di tutti i tempi, consacrato all’Olympia di Parigi nel 1919. Grock era un augusto (il clown nero, anarchico e ingenuo), parlava otto lingue e suonava quattordici strumenti: massone ed esoterista, ha lasciato qui da noi, a Imperia, un circo di pietra in stile Gaudì, la sua villa diventata museo. Grock aveva sperimentato in anni di spettacolo una conoscenza di sé e del pubblico che gli aveva permesso di mettere a punto “quel sorriso elegante e sorpreso che costituiva la sua inimitabile cifra espressiva”.
Dopo aver lavorato in coppia con diversi clown bianchi – gli antagonisti dell’augusto sempre sfarzosamente vestiti, superbi e altezzosi, col berretto a pan di zucchero – il grande Grock era diventato solista. Anche in questo anticipava l’avvento di Charlot. Chaplin, che veniva notoriamente dal circo, era stato clown. Nato in una famiglia di saltimbanchi, in un accampamento rom vicino a Birmigham, Chaplin aveva visto Grock per la prima volta nel 1912. In Charlot, maschera del profugo, del vagabondo e del paria, aveva fuso – dice Maria Vittoria Vittori – l’ambizione di eleganza del clown bianco e l’irriverenza di quello nero creando, con l’andatura dondolante e il bastone da passeggio mulinante, un suo timbro di assoluta riconoscibilità artistica.
Il circo è vissuto di scambi con altri arti, con la pittura, con la letteratura, con l’opera e con il cinema, ha avuto una prima e una seconda vita, ha attraversato importanti correnti artistiche del Novecento, il surrealismo e il futurismo, eppure è rimasto capace di far ridere i bambini. Nel 1984, quando uscì il romanzo di Angela Carter “Notti al circo” – scrive Maria Vittoria Vittori – la sua parabola artistica sembrava conclusa da tempo con tutti gli onori. Ed ecco che spicca, letteralmente, un altro volo oltre i confini della realtà, rappresentando pulsioni e desideri segreti. Il circo da sempre trasforma i freaks, le creature strane che il mondo scarta, in stelle lucenti dello spettacolo.
Come Fevvers, il personaggio inventato da Angela Carter, un’acrobata che vola a tutti gli effetti, un prodigio con ali vere, un essere che è donna e forse anche uomo: il romanzo segue l’inchiesta di un giornalista che si infiltra nel circo per dimostrare che il fenomeno è solo impostura. Ma, per dimostrarlo, l’inviato deve compiere un viaggio lungo il confine tra natura e artificio. In quel clima culturale, e lungo quel confine rinasce il circo contemporaneo.
Il saggio di Maria Vittoria Vittori si chiude con un omaggio a Moira Orfei, nostra signora del circo col suo famoso turbante di capelli neri. Ci ricorda che è proprio Moira la donna fasciata in un abito bianco ritratta di spalle da uno scatto di Mario De Biasi, nel 1954: è davanti all’ingresso della Galleria di Milano, incede senza timidezze con gli uomini voltati a guardala. È lei l’emblema scelto da Germano Celant per raccontare a fine Novecento, al Guggenheim di New York, la grande metamorfosi italiana del dopoguerra.
Quanto a me, dopo aver visto Kurios, alla fine dello spettacolo, ho risposto alla domanda molesta: qual è il gusto di fondo di questa elaboratissima pietanza? È ancora circo, sì è ancora lui, una delle sue nuove incarnazioni.