Tre generazioni in un nodo di carne, la storia come catena umana in una sola immagine, nel groviglio di corpi appena coperti da un lenzuolo svolazzante. E’ quello che si vede nell’Incendio di Borgo, dipinto da Raffaello Sanzio nelle Stanze Vaticane. Lo stesso gruppo, scolpito nel marmo da Gian Lorenzo Bernini un secolo dopo, è raffigurato nella perfezione assoluta del bianco. Il soggetto è lo stesso – Enea abbandona Troia in fiamme con il figlioletto Ascanio e il padre Anchise sulle spalle – ma il risultato è molto diverso.
Nel dipinto di Raffaello c’è la tragedia, una drammaticità michelangiolesca dei corpi nello sforzo muscolare della fuga, l’incarnato di Anchise ha i segni della vecchiaia e ha perso la freschezza rosea della pelle del figlio e del nipote, dietro hanno un mondo finito, divorato dalle fiamme, uno sguardo d’intesa corre tra il nonno e il ragazzino. Nel gruppo di Bernini, il bambino è molto più piccolo, nascosto dietro le gambe del padre, il vecchio sovrastante è saggio e venerabile, con una lunga barba, appoggia la statuetta dei penati sopra la testa del figlio: si raffigura la speranza, la missione di rinascita affidata a quei tre.
Enea è la figura mitologica dell’anno – l’anno del covid-19 – e si aggira nell’immaginario collettivo, chiamato in causa come simbolo di civiltà. Contro il cinismo di chi ha predicato la diffusione rapida del contagio per arrivare prima all’immunità di gregge, considerando la morte dei più vecchi e dei più deboli un male inevitabile. E poi Enea è sempre lì a ricordarci la discendenza da un esule dell’altra sponda del Mediterraneo, un profugo, un naufrago errante nel mare nostrum come oggi ce ne sono tanti. E forse un po’ di lui, di Anchise e di Ascanio, si trova anche nella predicazione di papa Bergoglio, quando dice che la profezia è dei giovani, ma i nostri ragazzi non avranno visioni del futuro senza conoscere i sogni dei loro nonni: la storia come la sappiamo fin qui è una catena di generazioni, se si spezza, si navigherà senza rotta.
E tuttavia, al pio Enea, da ragazzi preferivamo gli eroi omerici. Le star dell’Iliade, Ettore e Achille, l’umanesimo troiano e la potenza dei greci scatenata nella piana dello Scamandro. Il duello tra i due si leggeva col cuore in gola, partigiani della nobile eticità dei perdenti e atterriti dalla determinazione a prevalere dei vincitori, spinta fino all’umiliazione dell’avversario, il cui corpo viene trascinato dal carro del vincitore. Mentre i poteri forti – gli déi dell’Olimpo divisi a sostegno dell’una o dell’altra parte – giocano la loro partita. Bisogna crescere e sbattere contro la vita per amare la forza della virtù. Enea pativa del glamour di Odisseo, l’astuto suggeritore della mossa del cavallo di legno, spinto nel cuore della città nemica col ventre carico di soldati, mentre i greci fingono di rompere l’assedio e di andarsene con le loro navi. E’ il grande viaggiatore sbattuto per il Mediterraneo sulla via del ritorno, che nell’Odissea vaga da un’isola all’altra in un crescendo di eccitanti avventure, fino a Itaca dove fa strage dell’avida nobiltà locale per riprendersi la moglie e il trono. Navigando all’infinito verso il luogo delle origini, Odisseo continua a rinascere finché Dante lo trasforma nell’uomo moderno mai sazio di conoscenza perché fatti non foste a viver come bruti.
Enea si trova già nell’Iliade ma è un attore non protagonista. Omero lo tratta con i guanti bianchi, è figlio di una dea: Afrodite ha partorito il neonato sul monte Ida, dopo aver amoreggiato con un pastore, un certo Anchise, che avrebbe dovuto mantenere il segreto e invece non ha saputo resistere e si è vantato con gli amici, restando immediatamente sciancato per punizione. Quell’amore è celebrato in uno degli Inni omerici. Enea arriva bambino nella città di suo padre, cugino del re, dove sarà educato come un principe: è lui ad affrontare Achille prima di Ettore, si salva per intervento divino, reso invisibile all’avversario da una nebbia che offusca gli occhi. Enea è il principe dei Dardani, un suo antenato veniva dall’Italia, è destinato a salvarsi e a cercare la terra promessa. E’ questa posizione elettiva già tracciata nel poema omerico a farne il prescelto di Virgilio per celebrare la fondazione di Roma e l’impero di Augusto, ma tra le due opere corrono mille anni di racconti e di varianti che hanno arricchito il mito.
All’eroe secondo Virgilio è ora dedicato il saggio narrativo di Giulio Guidorizzi uscito da Einaudi, Enea lo straniero, che si apre con un suggestivo prologo: nell’aprile del 248 a celebrare il primo millennio di Roma, officiato con grandiosi festeggiamenti, è Filippo l’Arabo, un imperatore nato ai margini del deserto, in un oscuro villaggio della Siria. Ai romani non importava da dove venivi, ciò che contava era la sottomissione alla legge, il rispetto di un unico ius.
A differenza dei greci, che si consideravano piantati nella terra come alberi e che, pur rispettando i doveri dell’ospitalità, mai si sarebbero confusi con i barbari, i romani si pensavano come miscuglio di genti. Fondando la città, Romolo aveva scavato una fosse circolare dove ciascuno di quelli che l’avevano seguito, forestieri e banditi, aveva gettato una manciata della propria terra. E quando costruirono il mito delle origini, si vollero discendenti di un advena, uno che viene da fuori e attraversa il mare accompagnato da fuggiaschi. Guidorizzi cita Seneca, che peraltro era uno spagnolo di Cordova: «L’impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si portava dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana … Farai fatica a trovare ancora una terra abitata dagli indigeni – dice il filosofo che fu precettore di Nerone – tutto è il risultato di commistioni e di innesti».
L’Humilis Italia dove sbarcano gli esuli troiani era già un coacervo di genti che si erano lungamente combattute e riuscivano a intendersi nonostante parlassero lingue diverse: Umbri, Sabelli, Osci, Sanniti, Marsi, Etruschi, Latini, Greci… Una potenza nascente avrebbe dovuto integrarli. Dunque la scelta di Virgilio di celebrare Augusto e la nascita del suo impero cosmopolita con il mito di Enea e il viaggio degli esuli troiani che si uniscono agli aborigeni, ha una prima geniale cassa di risonanza nel melting-pot italico. E certo i profughi di Troia erano naufraghi speciali. Venivano «dall’abbacinante mondo greco abitato da uomini che cercavano il sole, dove si parlava di eroi famosi i cui nomi divennero immortali»; il loro mare era fitto di isole dove si scambiavano merci e idee nuove. I troiani appaiono come una cometa lucente, un’ aristocrazia in fuga che va a fondersi con popoli piuttosto primitivi.
La parte più interessante del racconto di Guidorizzi è quella che ricostruisce l’antico Lazio. I latini non conoscevano lo splendore dei miti, erano gente semplice «comparsa nella storia in modo oscuro»; erano contadini «ossessionati dal rispetto minuzioso delle regole e dalle norme della religio, per ingraziarsi le forze invisibili della natura». Celebravano riti della fecondità come i Lupercali, imbrattandosi il viso con il sangue delle capre sacrificate e ricavando dalle loro pelli fruste con le quali battevano le donne per propiziarne la gravidanza. Non è difficile immaginare che il loro re fosse sedotto dal fascino del principe straniero, giunto dalla magnifica città di Troia e lontano discendente di Dardano, un progenitore partito dall’Etruria. Molti studiosi dell’Eneide vedono nell’arrivo dei troiani la trasfigurazione del processo di incorporazione nella cultura romana della civiltà etrusca o del mondo ellenico. Sposando la figlia del re Latino, Enea avrebbe dato inizio a una nuova stirpe, ma come sappiamo questo sogno costa una guerra, al termine della quale troiani, latini e etruschi saranno un unico popolo.
Ma perché andarsi a prendere lo spirito guida della storia di Roma proprio tra le fiamme di Troia? Prima di Virgilio, il mito di Enea aveva viaggiato per il Mediterraneo per un millennio. Mario Lentano racconta con grande efficacia come i miti non raggiungano mai una forma definitiva, e del nostro eroe davvero si erano dette cose diverse (Il mito di Enea, scritto con Maurizio Bettini, Einaudi). Esiste una versione che ne fa addirittura un traditore che fugge dopo essersi venduto ai greci, oppure un disertore che abbandona i suoi prima della fine della guerra. Secondo alcuni, Enea era stato destinato alla salvezza ma per regnare solo sui troiani superstiti, sostituendo con i dardanidi la discendenza perdente di Priamo.
Strabone fa sapere – ricorda Mario Lentano nel suo saggio – che qualcuno aveva manipolato il testo di Omero per far sì che Enea, il principe superstite, regnasse su tutti, e non solo sui troiani; Dionigi di Alicarnasso racconta invece che il progenitore di Roma e il re dei troiani sopravvissuti alla guerra non sono la stessa persona. Il mito oscilla tra un Enea che torna in patria, dopo aver fondato una città, e uno che rimane in Italia ma a regnare soltanto sui suoi. Virgilio scelse la versione di Omero, ricchissima di ambivalenze e quindi suscettibile di sviluppi diversi, per fonderla con la leggenda autoctona della fondazione di Roma, la storia dei gemelli allevati dalla lupa.
Virgilio si voleva in continuità con la più grande tradizione letteraria, che aveva già generato la leggenda di un eroe fuggiasco, sbattuto dal mare in Tracia e poi in Macedonia e nel nord Africa per approdare in Italia, un po’ come Ulisse. Ma il suo eroe ha uno spirito completamente diverso: Enea è oblativo, votato a una missione trascendente cui tutto sacrifica. Senza Virgilio, non avrebbe avuto tanta fortuna e un’incredibile moltiplicazione di discendenti: non si contano le città fondate da uno degli uomini del suo equipaggi; nel medioevo, l’aspirazione ad antenati troiani si diffuse tra franchi e normanni che per questo inventarono apposite leggende.
Per far discendere i romani dai troiani, Virgilio dovette risolvere complessi problemi genealogici. L’Eneide si chiude con un patto dove Giove promette a Giunone, che veglia sul Lazio, di conservare l’identità latina dei figli nati da matrimoni misti. Maurizio Bettini ha indagato questo patto in un bel saggio (Un’identità troppo compiuta. Troiani, Latini, Romani, Iuli nell’Eneide, MD n.55/2005). Perché – si è chiesto – trasportare Enea in Italia, fargli vincere una guerra e incoronarlo progenitore di Roma per poi chiudere il poema con un impegno che sembra ridimensionare drasticamente l’apporto dei transfughi di Troia?
Secondo l’intesa tra i divini coniugi, infatti, i figli di troiani e latini avrebbero dovuto parlare il latino, vestire abiti e conservare costumi autoctoni; la commistione tra le genti sarebbe avvenuta nel corpo, non nell’identità culturale, depositandosi sul fondo come un carattere recessivo. Per giunta, essendo i nuovi arrivati soprattutto maschi – i troiani avevano perso o abbandonato le loro donne durante il viaggio – i discendenti avrebbero assunto un’eredità culturale prevalentemente materna; e sappiamo che la cultura romana era tutt’altro che matrilineare, tutto si ereditava dal padre. Infine, se questo era il patto, dove va a finire l’idea dei romani gente di mondo e con una vocazione cosmopolita?
Infatti, quel patto non è ciò che sembra. L’analisi di Bettini si conclude con l’individuazione di due genealogie diverse. C’è la discendenza di Ascanio, la gens Iulia da cui Giulio Cesare e poi Augusto, che acquista così un’ ascendenza divina, ed è quella di derivazione prevalentemente troiana – secondo Dionigi di Alicarnasso, a Roma c’erano cinquanta nobili famiglie considerate progenie di Enea. E poi c’è il popolo meticcio, gli italici prevalentemente latini cui allude il patto tra Giove e Giunone. Tra la Dardania proles e l’Itala gens, che in fondo erano cugine, correvano rivalità che si risolvevano in conflitti, alternanze, distribuzioni centellinate di cariche pubbliche. Il poema di Virgilio è una miniera dalla quale continueremo a estrarre conoscenza chissà per quanto tempo.