Anticonformista, libertaria, raffinatissima, in urto con se stessa e con il mondo, Fabrizia Ramondino se ne andava quindici anni fa chiudendo il cerchio della vita in modo talmente letterario da sembrare già scritto, romanzesco.
Quest’anno Fazi ha riportato in libreria le sue opere maggiori e sono disponibili le nuove edizioni dei romanzi più belli, “Althénopis” e “Guerra d’infanzia e di Spagna”; mentre Mirella Armiero ha curato per e/o, nella Collana di pensiero radicale diretta da Goffredo Fofi, “Modi per sopravvivere”, un’accurata raccolta dei suoi scritti politici.
Era il 2008 e Fabrizia Ramondino aveva preso come sempre una stanza in affitto sulla spiaggia di Sant’Agostino, una striscia di sabbia bianca lungo la via Flacca tra Sperlonga e Gaeta. Il giorno della sua morte era uscita per un tuffo e una nuotata in attesa del primo caffè. Il mare era per lei un elemento vitale, ma quella mattina ebbe un malore, si accosciò a riva e non tornò. Il suo ultimo romanzo, “La via”, sarebbe uscito il giorno dopo ed è la storia di un marinaio giramondo, come lei, che si ritira in un borgo diviso da una via di transito dalla quale è passata ogni storia. Come l’Appia che attraversa Itri, dove Ramondino era andata ad abitare scacciata dal terremoto che aveva reso pericolante la sua casa di palazzo Spinelli a Napoli. Nell’ultima parte della sua vita, si era trasferita nel paese del re dei briganti Michele Pezza, sovrastato dall’arcigno castello con le mura incredibilmente scoscese, di cui suo fratello curava il restauro.
Non credo di poter dimenticare Fabrizia Ramondino nel sole invernale, che fuma assorta una sigaretta dopo l’altra, seduta nel bianco abbagliante della piazzetta di Sperlonga deserta e purificata dal clamore del fasti estivi. Sembrava fatta di piume e d’aria e nessuno osava disturbarla. Aveva un carattere spinoso, ma ora che so quanto le persone accomodanti svaniscano rapidamente dalla memoria direi che aveva un carattere e basta. In archivio ho ancora un ritaglio del Giornale con la sferzante intervista che le fece Giancarlo Perna nel 1999: andò a trovarla a Itri in occasione dell’uscita de “L’isola riflessa”, e mentre lei preparava il caffè le chiese a bruciapelo se usava la caffeina per controllare l’alcol. Senza scomporsi, senza neanche un plissé, rispose che era sobria da un mese e che, nella depressione, l’alcol le aveva dato quell’illusione di avere energia e forza che poi si paga cara. Quella conversazione – dura e sfrontata – è la testimonianza di un duello verbale non di fioretto ma di sciabola. Combattuto a viso aperto quando ancora si praticava l’arte del confronto, anche spietato, rispettandosi.
La sua parabola letteraria era cominciata tardi, nel 1981, con la pubblicazione di “Althenopis”, il romanzo d’esordio. Un diamante reso lucente da una gestazione lunghissima. Aveva trasfigurato la storia di una famiglia, di una città e di un mondo che spariva inghiottito dalla guerra, passando attraverso la femminilità, attraverso il corpo e la vicenda di una piccola tribù di femmine – fatta di nonne, madri, zie – che aveva ritrovato dentro di sé con i turbamenti dell’infanzia e i contrasti anche violenti tra generazioni diverse.
Il nucleo primario di “Althénopis” si era formato molto tempo prima – ci ha poi spiegato Beatrice Alfonzetti nei suoi saggi critici su Ramondino. Scaturiva dalla lettura della “Cognizione del dolore” di Gadda che le aveva consentito di mettere a fuoco il tormentato rapporto con la madre. Ma per molare il suo prisma luminosissimo, Fabrizia aveva dovuto aspettare anni, anni in cui scriveva soltanto per sé. Capì d’essere pronta a farne un romanzo quando, in sogno, la nonna le comandò di scrivere. Era vestita di nero come quella di “Althénopis”, che attraversa la piazza di Santa Maria del Mare, un paese immaginario della Penisola sorrentina, con i colori che le guizzano intorno “come fiamme dell’inferno”. Sulla pagina tutto transita in una dimensione mitica, quasi una fiaba che accade non lontano da Napoli, cioè da Althenopis, nel suo ambiguo significato di occhio di vergine e occhio di vecchia.
Nel 1981, Ramondino aveva quarantacinque anni e con quel libro lungamente covato e già ibrido – un po’ romanzo e un po’ memoir – aveva conquistato Elsa Morante, sua mentore da Einaudi e poi Natalia Ginzburg, che scriverà i risvolti di alcune sue opere; Anna Maria Ortese aveva accolto in suo esordio con entusiasmo. Con ciascuna di loro aveva in comune qualcosa: la capacità di varcare la soglia del mito e dunque del sacro; quella di guardare il mondo dal basso come sanno fare soltanto i bambini; il nomadismo cosmopolita. Infatti, come Ortese, Ramondino era un po’ zingara, una nomade plurilingue e, nel suo caso, alto borghese. Figlia di un diplomatico, nata a Napoli nel 1936 ma cresciuta a Maiorca e poi educata in Francia e in Germania, Fabrizia era tornata nel luogo delle origini alla morte del padre e si considerava napoletana per scelta. Anche se detestava il cliché del letterato napoletano, per lei non c’erano autori napoletani ma scrittori e basta. E la città che aveva scelto come patria era un caleidoscopio, una realtà stratificata e multiforme, lo specchio della teoria ciclica di Vico per cui non c’è progresso lineare e la barbarie può sempre fare ritorno. La sua città era una composizione dadaista fatta di prospettive diverse, dell’intreccio dei punti di vista di artisti e scrittori, filosofi e poeti, eruditi e viaggiatori. Quella città immaginaria era diventata un progetto e poi un’antologia – duecento voci da Goethe a Freud, da Sade a Dumas, da Braudel a Marina Cvetaieva … – curata con Andreas Müller in un volume Einaudi ormai quasi introvabile, intitolato appunto “Dadapolis”.
Questa è la Ramondino più nota, poi ce n’è un’altra conosciuta poco o nulla, che è venuta prima e che – dispersa in scritti militanti, inchieste, articoli di giornale – sarebbe stato impossibile ritrovare senza l’ antologia sapientemente curata da Mirella Armiero per e/o. Singolare anche in questo, Fabrizia Ramondino non è stata una scrittrice militante ma semmai il contrario: una militante che aveva custodito il suo talento rivelandolo solo nell’età matura, a un certo punto della vita. Prima era stata maestra di strada, aveva lavorato all’Aied e insegnato alle braccianti come usare il diaframma per prevenire gravidanze indesiderate; aveva fatto inchieste sui disoccupati e su quella enorme fabbrica a cielo aperto che era il centro storico di Napoli, dove si tagliavano e cucivano a domicilio scarpe e guanti. Ma certo anche questo lo aveva fatto con il suo inimitabile, brusco ed eretico stile.
Su posizione anarchiche, vicina al socialismo di Prudhon, Ramondino fece la tirocinante al Ceis di Rimini dove si sperimentava la pedagogia attiva. A Napoli cominciò col doposcuola per i bambini dei vicoli e poi con la scuola serale degli adulti ben prima che nascessero le 150 ore per il recupero scolastico dei lavoratori. Negli anni Sessanta, fondò con Vera Lombardi, Lamberto Borghi e altri l’Associazione risveglio di Napoli, che fu tra i suggeritori ascoltati da Tristano Codignola mentre si preparava la legge per la scuola media unica, che avrebbe introdotto l’istruzione obbligatoria fino a quattordici anni. Una riforma di civiltà che, nei quartieri più poveri di Napoli, sarebbe andata a scontrarsi con la necessità di alcune famiglie di far lavorare anche i bambini per sbarcare il lunario. L’Associazione risveglio di Napoli fece una proposta che non passò, ma che fa pensare anche adesso: dare a quelle famiglie un piccolo reddito sostitutivo purché mandassero i figli a scuola, poiché sarebbe stato impossibile far rispettare l’obbligo scolastico con i carabinieri, le sanzioni o addirittura con il carcere ai genitori inadempienti.
A rileggere adesso gli scritti politici di quel tempo, a tratti si fatica a riconoscere la scrittrice nascosta dietro la neolingua del gruppettarismo dell’epoca, eppure Fabrizia Ramondino è sempre sé stessa. Sapeva che per mettersi al servizio degli ultimi non bastano la razionalità politica o una vocazione religiosa: bisogna amare, trovare regalità e bellezza dove altri vedono soltanto miseria e stracci; e soprattutto bisogna sapere che non sei tu a salvare loro ma sono loro che salvano te.
Così eccola diventare maestra di strada al culmine di una depressione terribile, quando accoglie l’invito di una cameriera analfabeta al servizio della madre perché insegni ai suoi figli a leggere, scrivere e far di conto: “Scesi nel suo vicolo e i bambini mi salvarono dal mio male”, avrebbe ricostruito più tardi. “Celebravo, ma non lo sapevo allora, il mio passaggio all’età adulta, che per una giovane donna una volta significava fare un bambino, per me fu invece saperlo portare in spalla”. Quanto al saper amare gli ultimi, nella sua storia c’è una figura originaria che è la matrice di tutto: Fabrizia ha scritto di dovere il nutrimento, il legame positivo con la vita alla balia maiorchina Dida che considerava la sua vera madre. Dida, si legge in “Guerra di infanzia e di Spagna”, era stata la signora del regno di Son Batle, la villa dove la famiglia viveva a Maiorca e, ai sui occhi di bambina, era “regina di tutti, servi e padroni, piante e animali, stanze e patios, stelle e pianeti”.
Nel 1966 Fabrizia si trasferì a Milano, perse sua madre e dal suo legame con Livio Patrizi nacque sua figlia; Livia da grande è diventata una danzatrice, vive in Germania, è stata allieva di Pina Bausch. Ma alla fine degli anni Settanta, al tempo delle lotte sociali – mentre faceva la sua apparizione un demone inquietante, “il veleno” della lotta armata – Ramondino tornò a Napoli. Lavorava al Centro di coordinamento campano con Enrico Pugliese, Giovanni Mottura ed altri, il metodo dell’inchiesta sociale divenne la sua bussola. E così scriveva cose che oggi possono sembrare ovvie, ma allora davvero non lo erano. Per esempio che la plebe napoletana – il sottoproletario straccione – non esisteva già più: e invece c’erano i lavoratori marginali, gli operai rimasti senza posto e gli artigiani senza bottega, i contadini inurbati e le cucitrici a nero occupate a casa loro oggi sì e domani no … Figure sociali mutanti, scivolate nell’anomia della precarietà assoluta e del lavoro a giornata. Modi di guadagnarsi da vivere legati al decentramento produttivo, che portava il lavoro fuori dalle fabbriche e che non era segno di arretratezza, la maledizione del Sud, ma l’opposto: una moderna frontiera dello sviluppo. Mentre nasceva anche un ordine nuovo della malavita: e “se continuerà a crescere la disoccupazione giovanile”, scriveva lei, “le camorre napoletane si estenderanno in tutte le cittadelle della civiltà europea”.
È interessante, qui, vedere come lo sviluppo dell’inchiesta di Fabrizia Ramondino sui disoccupati organizzati, pubblicata da Feltrinelli nel 1977, sia stato praticamente contemporaneo alla gestazione di “Althénopis”, il romanzo che uscirà quattro anni più tardi, nello stupore dei suoi compagni di strada, ai quali aveva nascosto il suo talento. Perché pubblicare “mi pareva quasi un peccato”: era il suo “complesso di classe” – la definizione è sua – l’ombra di un privilegio portato con imbarazzo. Ora si era rotto un diaframma, reciso un cordone ombelicale e doveva riconoscere, prima di tutto a sé stessa, di essere “diversa”. In fondo era un’altra nascita, l’inizio di una vita artistica che si rivelerà prolifica: romanzi, reportage, poesie e racconti, testi teatrali, taccuini e memoir, sceneggiature. Come quella di “Morte di un matematico napoletano”, sul suicidio del geniale Renato Caccioppoli, amico delle sue zie. Il film, scritto con Mario Martone, vinse nel 1992 il Gran premio della giuria alla Mostra nel cinema di Venezia e, l’anno dopo, ebbe i David di Donatello per la regia e per il miglior attore (il protagonista era Carlo Cecchi).
Un talento fiorito tardi e strappato a un antico male di vivere. Fabrizia Ramondino diceva di essersi curata con la passione civile e non l’abbandonò mai. Nacquero così i suoi reportage dal Marocco sul popolo Sahrawi e quel diario di bordo che è “Passaggio a Trieste”, il suo lavoro più esplicitamente femminista. Ospite del Centro donna salute mentale – invitata dalla sua amica Assunta Signorelli, allieva di Basaglia – Ramondino andò a curarsi da una crisi legata all’alcolismo compiendo una viaggio nella sofferenza psichica: guardò in faccia quella specie di Medusa e raccontò le storie delle pazienti fidandosi solo della sua arte, “la legge della scrittura”.