Quando venne fuori l’incresciosa storia di una presunta figlia di Dalì che reclamava la sua parte di eredità mi trovavo a Figueres, nella provincia di Girona, dove il gran pittore nacque nel 1904 e dove presto sarebbe stato esumato il suo corpo, imbalsamato con tanto di baffi arricciati col gel. La prova del DNA avrebbe escluso la paternità presunta di Salvador Felipe Jacinto Dalì i Domenech, ma intanto – curiosa, in mezzo a frotte di turisti – ero andata a cercare la sua tomba entrando nel Teatro Museo con la famosa cupola trasparente, la scialuppa capovolta in aria nel mezzo cortile e i naufraghi a testa in giù. Intorno, le mura di un castello rosso argilla orlate, come le torri, di bianche uova giganti. Progettato personalmente nei minimi dettagli, il museo contiene gran parte dei balocchi del Marqués de Dalì de Púbol, che per l’eternità presenzia dalla sua sepoltura, e chissà se con un brivido di piacere, all’inesauribile via vai di visitatori.
Lì, per la prima volta, avevo visto Gala onnipresente, misurando l’evoluzione dei ritratti di lei, che ora esce da una tavola di legno grezzo con un oliveto tra i capelli, nel ritratto abbozzato del 1933. Poi sale nell’apoteosi del decennio successivo e diventa “Galarina”, dipinta nel 1945 nella stessa posa della “Fornarina” di Raffaello, ma con un solo seno nudo. Ed eccola divinizzata nel 1949, “Leda atomica” ghermita dal cigno nelle sue classiche proporzioni, per poi sgranarsi e scomporsi come una galassia di pianeti nella “Galatea delle sfere” del 1952. Nel racconto autobiografico del Dalì non ancora quarantenne, pubblicato nel 1942, il maestro aveva presentato al mondo la sua donna come “un autentico miracolo”, come l’unico essere che “ha raggiunto un piano di vita paragonabile alla serene perfezioni del Rinascimento”, come “Gala-Gradiva, colei che avanza”, la chiave di accesso al suo mondo inconscio, colei che – iniziandolo all’amore – l’aveva guarito dalla follia e distolto dal crimine.
“La mia vita segreta” (in italiano magnificamente tradotto da Irene Brin, si trova in edizione Abscondita 2006) non è la verità dei fatti su Dalì. È la grande finzione allestita per lasciar indovinare dati biografici, dilatatati e trasfigurati come dentro un’allucinazione. La creazione del mito di sé di cui Gala è la glorificata coautrice, colei che l’aveva fatto rinascere dopo averlo separato dalla sua famiglia di origine e da quella surrealista.
Ora che di lei si può fare la sgradevole conoscenza andando al cinema, è utile rimetterla a fuoco sistemando frammenti e ricucendo contorni. La Gala che si incontra nel biopic della regista e sceneggiatrice canadese Mary Harron (nelle sale dal 25 maggio) è soprattutto quella dell’ultimo, malinconico tratto della vita di Dalì, la decadenza. In “Daliland”, con Ben Kingsley gran camaleonte nei panni del maestro, e Barbara Sukova in quelli della dispotica ispiratrice-moglie-agente e manager che fa fruttare (e sfrutta ) il genio di Dalì, Gala non è la musa divina. E semmai ricorda la demoniaca sposa tratteggiata da Ian Gibson, importante biografo dell’artista, in “La vida desaforada de Salvador Dalì” (Anagrama, 1997). Dalla quale si ricava il ritratto certificato anche dallo storico dell’arte John Richardson, amico e biografo di Picasso, che a suo tempo scrisse senza remore su Vanity Fair: “Che Dalì fosse vittima della brama di dominio di Gala, la sua moglie russa, non è certo una congettura”. E subito ne offriva personale testimonianza, avendo sperimentato i metodi di lei, quando era vice presidente della famosa galleria newyorkese Knoedler and Co e doveva assicurarsi il rispetto degli impegni del maestro negoziando con la moglie. Siamo negli anni Settanta e Dalì era già ridotto come “un vecchio e squallido prestigiatore, con il suo corno di rinoceronte, il soprabito di pelle di leopardo e un alito surreale”. Cioé pestilenziale. Mentre Gala batteva cassa con “metodi commerciali molto russi: non contrattava, comandava, bullizzava”.
Gala aveva dieci anni più del venticinquenne Salvador quando si incontrarono con altri surrealisti a Cadaquès nel 1929, da allora non si lasciarono più. Lei era nata a Kazan nel 1894, era madre di una bambina, Cécile, nonché moglie del poeta francese Paul Éluard e amante del pittore dada Max Ernst. Musa di entrambi, era il vertice di un celebre triangolo amoroso. Ma prima di Gala c’era la misteriosa Helena Dmitrievna D’jakonova, figlia di un funzionario statale e di una scrittrice di libri per bambini che, rimasta vedova, si era risposata con un avvocato moscovita. Come tutti i russi colti, Helena sapeva il francese, era appassionata di letteratura e amica delle sorelle Cvetaeva. Anche di Marina, la grande poetessa cui forse si deve lo pseudonimo di Gala: infatti la chiamava Galya o Galushka.
Delicata di salute, Elena/Gala veniva periodicamente mandata in Svizzera a curarsi. Nel 1912, mentre era in un sanatorio di Davos con una diagnosi di tubercolosi, conobbe Paul Éluard. Allora lui non era ancora il poeta surrealista, era solo Eugène Grindel: un diciassettenne fragile e incerto che lei, con il suo indiscutibile fiuto per il talento, incoraggiò a scrivere. L’anno successivo Eugène pubblicò la prima raccolta di versi firmata Paul Éluard, dedicandole gran parte dei componimenti. Quando si separarono per tornare a casa, tra loro, corse un’appassionata corrispondenza. Finché nel 1916, con l’Europa in fiamme, Gala si trasferì a Parigi, dove traduceva dal russo e studiava il francese, vivendo nella casa della madre di Paul che era andato militare. Si sposarono nel 1917, l’anno dopo nacque Cécile. Nel 1919 Gala e Paul entrarono nel gruppo dei surrealisti che ruotava intorno ad André Breton. Lei divenne ispiratrice e modella anche di Man Ray, Robert Desnos, Max Ernst; Giorgio de Chirico le chiese di piazzare i suoi quadri. Quando incontrò Dalì, Gala era già un personaggio culto e, in quanto tale, adorata/detestata.
Fine dell’antefatto. Cosa sarebbe diventata Gala Dalì era tutto da vedere. La musa venefica, “la più cattiva delle mogli che un artista moderno si sia inflitto”, l’incubo con la parrucca corvina tenuta ferma da un fiocco alla Minnie Mouse, evocata da John Richardson? Quella che “ridusse Dalì a un logo, a una firma sgargiante come i suoi baffi”? La donna che prima fece e poi disfece l’artista, trasformandolo “in un mostro megalomane”, quella che lo spinse verso la rottura con Breton al quale aveva conteso l’anima del marito. E insieme verso il fascismo, verso “la svastica come fusione di Sinistra e Destra, come risoluzione del conflitto antagonista”. La lista delle accuse è lunga; e si sa che l’artista rispose alla più infamante che lui non stava né con Hitler né con Stalin perché era Dalì e si bastava. Intanto Breton inventava il famoso anagramma del nome che lo avrebbe inchiodato alla sua cupidigia: “Avida Dollars”.
Nella sua bografia di Salvador Dalì, Ian Gibson racconta che Gala “aveva un appetito sessuale travolgente”; Eluard ne era orgoglioso ma non riusciva a starle dietro e per questo accettava che avesse giovani amanti, così Max Ernst entrò nelle loro vite. John Richardson chiosa: “Pochi, tra i surrealisti, sopportavano Gala. Benché riverissero il Marchese de Sade, si sentirono minacciati quando un mostro autenticamente sadiano si manifestò in mezzo a loro”. Dunque Gala arrivò a Cadaqués nel 1929 con questa fama inquietante e Dalì, che aveva avuto un solo amore, Garcia Lorca, ne rimase stregato. Era la dominatrice dei suoi sogni, annota ancora Richardson, che aggiunge: “Anche lei vide l’uomo dei suoi sogni, qualcuno capace di condividere la sua passione per il denaro, per il potere, per la celebrità”; l’artista destinato “a un immediato succes de scandale”. A Cadaqués due metà si erano incontrate. Inutile dire che lungo la vita, negli anni, entrambi avrebbero avuto bisogno di giovani amanti per tenere in piedi il loro teatro.
Fin qui Gala la strega sadiana, amata e riverita da Dalì. La moglie che a un certo punto si invaghisce di Jeff Fenholt, il cantante dei Black Sabbath, interprete del musical Jesus Christ Superstar. La dominatrice cui l’artista, galoppando verso la senilità, regalerà il castello di Púbol, dove lei lo riceveva solo se invitato o previa domanda scritta. Ma questa parte del racconto è la più ovvia e conosciuta. Quella più complessa e meno scontata è venuta dopo, quando sono state trovate le carte di Gala Dalì (“La vita segreta”, traduzione di Glauco Felici, L’ippocampo 2012). E la storica dell’arte spagnola Estrella de Diego ha cominciato a dire che qui non c’è la storia di una musa, ma quella di un’ artista sui generis. Presentarsi tra i surrealisti come modella e come ispiratrice fu “una messinscena”, “una strategia del camuffamento”, perché Gala era un personaggio come lo fu Dalì e la dissimulazione praticata era l’ideale per chi, come loro, aspirava a battere il tempo e a perdere l’anima.
Scritto in francese e ritrovato a Pùbol fra i manoscritti di Dalì, il diario di Gala è in realtà un testo smilzo ed espressivo, che illumina due momenti della vita: l’infanzia e l’adolescenza russa di cui non si sapeva quasi nulla e il periodo americano, 1940 -1948, quello in cui i diabolici coniugi vissero negli Stati Uniti per sfuggire alla guerra. Gli studiosi di Dalì vi hanno trovato segreti, falsi ricordi e conferme della mano di Gala nella scrittura dell’autobiografia del maestro. Del resto lui, nella sua bizzarra maniera, l’aveva sempre detto.
Presentando il diario, la storica dell’arte Estrella de Diego illumina la formazione della personalità di Helena Dmitrievna, nel periodo russo, la sua predilezione per Dostoevskij, l’amicizia con Marina Cvetaeva e la sua invidia per lei. Helena le avrebbe confidato: “Ho le idee ma non trovo le parole né i colori. (…) Ho deciso: sarò poetessa, pittrice, tutto, ma per interposti uomini”. Dunque ecco che genere di talento svilupperà Gala: la capacità di entrare in simbiosi con gli artisti, in un certo senso di crearli. Lo farà con Eluard, con Max Ernst, con Dalì impadronendosi delle loro anime; ma – per riuscirci – doveva prima rinunciare alla sua. Cancellare i ricordi russi e separarsi per sempre dalla lingua madre. La decisione di essere pienamente Gala e di iniziare la sua carriera “di creatrice camuffata”, scrive de Diego, inizia quando si trasferisce a Parigi. Ma già dai tempi di Davos Helena è in simbiosi con Paul Eluard e tutti e due sanno che “io sono te e tu sei me”. Poi, certo, “ recita la parte della moglie russa sottomessa, perché questo esige l’etichetta, anche se appare poco credibile a chi conosce la sua determinazione”.
Dopi i giorni passati a Cadaqués nel 1929, a prendere il sole nudi sulla spiaggia scandalizzando la gente del posto, Gala lascia la bambina e molla Eluard – poeta già famoso – per un giovane e promettente pittore catalano dalla risata isterica. Perché lo fa, che cosa ha visto in lui? Va incontro all’ostracismo della famiglia di Dalì, cercando di rendersi indispensabile e naturalmente lo diventa: “Come tutte le mogli russe”, scrive, “ cerco di aiutare personalmente mio marito in tutto. Gli servo spesso da modella, gli faccio da segretaria per tutto ciò che incombe alla parte pratica della nostra vita, perché lui è totalmente immerso nel suo mondo creativo, nel lavoro. Incapace di gestire certe stupidaggini. Non sono proprio brillante ma viviamo come tutti gli artisti, lavoriamo per quello che è più importante: l’espressione del talento”.
In quel periodo lui decide di rinascere abdicando al passato, ai sogni e ai falsi ricordi. Gala gli fa da levatrice. E gradualmente – questa è la tesi di del Diego – Dalì e Gala si fondono, anzi si confondono, e lei diventa lo specchio dove lui vede se stesso. Nasce un nuovo personaggio: Gala Salvador Dalì. É un personaggio di finzione, per un po’ lui firma così e probabilmente questo ermafrodito mitologico è ciò che li ha resi inseparabili, uniti per sempre.
Un vecchio amico, vicino di casa a Port Ligat, dove il mare lambisce la costa senza frangersi, un uomo semplice e fuori dal mondo dell’arte, ha raccontato Gala come una donna orientale. “Il prototipo della russa”, poteva essere violenta e perfino picchiare, “lasciarsi trasportare da furie irrazionali senza misurare le conseguenze”. Nell’eros era priva di tabù, “non la frenavano le idee di decoro o le frontiere del pudore”. Era una fanatica e stravedeva per Dalì, ossessionata dall’idea che alla sua morte lui sarebbe rimasto solo e senza protezione. Cercava qualcuna disposta a sposarlo una volta che fosse diventato vedovo e lacerato dalla sua mancanza. Privo dell’energia vitale di Gala e dimezzato dalla perdita della sua potestà.