Gente di Tangeri. Persone, storie e oggetti da collezione

Scrittore, viaggiatore, giardiniere, collezionista e botanico, nel suo nuovo libro, "Arabesco", Umberto Pasti scherza con lo spirito della città bianca

Medina di Tangeri, foto Entropy 1963
Medina di Tangeri, foto Entropy 1963

E voi l’avete il duende? L’energia dionisiaca, la forza magica che possiede un artista anche contro la sua volontà e che viene dalle radici, dall’oscurità del sangue? I ballerini di flamenco dicono che il duende è una potenza tellurica, sale dai piedi. Ma non sempre c’è: si può suonare, danzare, creare con o senza duende. Non tutti gli artisti l’hanno, molti fingono, lo sanno mimare abilmente. Il duende fa soffrire, abita sul bordo tra la vita e la morte. “La virtù magica del componimento poetico consiste nell’essere sempre intriso di duende”; “con duende è più facile amare, comprendere, ed è certo essere amati, essere compresi”: così Federico García Lorca nella mirabile conferenza “Juego y teoria del duende”, tenuta a Buenos Aires, nel salone della Sociedad de los Amigos del Arte il 20 ottobre 1933.

 Il demone degli artisti per Lorca nulla ha a che fare col diavolo, con la musa ispiratrice o con l’angelo che dà luce, è una figura “oscura e trepidante”. Ma col duende si può anche amabilmente scherzare, dopo tutto ha un parente stretto nel folclore andaluso, è una presenza domestica: il nome viene da dueño de la casa, lo spirito dispettoso e propenso alla seduzione che molesta gli abitanti. Scherzare col duende, che da antico proprietario infesta la sua villa tangerina e vive nella morte quotidiana come ogni fantasma, è quello che fa Umberto Pasti nel suo “Arabesco. Avventure tangerine di un collezionista”, pubblicato da Bompiani. Il risultato è una sofisticata, scintillante commedia in cui il duende non fa che litigare con l’autore e si presenta pomposamente da solo come “Diego Mullor Heredia, per servirti hombre!”.

Lo spiritello pretende gli si faccia da paraninfo  mentre sospira dietro signore dal corpo largo, materno e generoso, e dallo scrittore esige che adempia al compito di raccontare la storia della sua casa. Invece di sperperare denaro e perdere tempo dietro alle sue tonterie: raccogliere, comprare, interrogare, inseguire, parlare con cassapanche jbala appartenute a berberi della montagna, con antiche ceramiche e mensole dipinte, con lembi di tappeti rari, paraventi e comò, terrecotte tolemaiche, stampe, stuoie e animali impagliati, opercoli di conchiglie, specchiere, frammenti di affreschi, semi e bulbi di piante scomparse… Una passione esasperante, tant’è che la casa non basta più e deve costruire un altro padiglione. “Arabesco” è la fabula a tratti farsesca di un collezionista che si prende in giro scherzando col duende.

Scrittore, viaggiatore, supremo giardiniere e botanico autodidatta, ma prima di tutto – direi – sognatore grandioso, Pasti vive da quarant’anni tra Milano e Tangeri con il suo compagno, il couturier Stephan Janson. È il tipo che quando immagina di scendere a dorso di elefante da una collina  verso le spiagge atlantiche subito dopo va a informarsi su come procurarsene uno che venga dall’India perché quelli africani non si fanno addomesticare. E se si addormenta sotto un fico in cima a una vallata pietrosa aperta sull’oceano e lì la sogna come se fosse il suo corpo, poi la trasforma in un orto botanico. Un’arca di Noè di specie vegetali a sessanta chilometri da Tangeri, un giardino di piante selvatiche  strappate alle ruspe che sbancano tutto divorando il territorio intorno alla città bianca, diventata  in pochi decenni una metropoli  da un milione e mezzo di abitanti.

Non importa se l’impresa appare impossibile, se manca l’acqua, se occorre trasportare la terra e se bisognerà inseguire vedove e nipoti per tutto il Marocco per acquisire dagli eredi la proprietà frantumata. È stato così che la pietraia e il corpo del sognatore sono veramente diventati il giardino di Rohuna, che già riceve molti visitatori e forse presto sarà un museo. Questa attività, gestita dall’Associazione Friends of Rohuna, sta trasformando anche la vita del villaggio vicino, con le attività di manutenzione dell’hortus e laboratori per restaurare mobili e costruire giocattoli. Pasti ha raccontato la storia di Rohuna in un suo precedente libro, uscito da Bompiani nel 2018, per il quale ha scelto un titolo che capovolge quello del poema di Milton: “Perduto in paradiso”. Lì, nell’incipit folgorante, si assiste ipnotizzati alla scomparsa di una creatura preistorica nelle fauci di un drago, ma in realtà è solo una vipera che inghiotte un rospo.

Dopotutto  le vere imprese sono sempre impossibili e mitologiche. Pazzie da Fitzcarraldo – come dice Diego, il fantasma di casa, in “Arabesco” . Il duende è un hidalgo nervoso, strampalato: nato a fine Ottocento intorno a Cadice, disegnatore sghembo e caricaturista anni Quaranta, nutre un certo disprezzo per il cannibalismo della pittura. È un andaluso involontariamente comico, scappato in Marocco che in un certo senso è l’aldilà degli spagnoli, il dove fuggire e da dove tornare. Accolse i mori dopo la Reconquista  e gli ebrei dopo la cacciata del 1492, è stato riparo di perseguitati in esilio e testa di ponte per l’assalto alla Repubblica nel 1936, guidato dai generali ribelli dell’armata d’Africa, tra i quali il generalissimo Franco che i marocchini chiamavano Yuca, civetta. 

Arabeschi architettonici nella Moschea di Cordoba in Spagna
Arabeschi architettonici nella Moschea di Cordoba in Spagna

  
Abitando in una specie di mecca del collezionismo, il duende è fin troppo smagato e se la ride dei cacciatori di trofei. Per noia o per nostalgia, a Tangeri  ciascuno  conserva qualcosa: vecchie locandine, carillon, tubetti di mascara, biglietti da visita, opaline, penne stilografiche, cuscini a piccolo punto e perfino – si è scoperto una volta – fiale di sangue. Ma questa è anche una città di umani da collezione, una concentrazione di eccentricità stratificate nel tempo e difficilmente reperibili tutte in un posto. Sono  gli expats arrivati al tramonto dell’impero britannico, gli aristocratici in cerca di asilo per sfuggire a uno scandalo, e poi vecchi libertini,  partigiani della libertà  e reprobi sottratti alle epurazioni seguite alla caduta dei regimi. A loro si sono aggiunti gli artisti attratti da quella particolare incredibile luce, gli scrittori e i poeti  della Beat generation in cerca di nuovi paradisi. Diego, il duende di casa, millanta che lui e Bill Burroughs, l’autore di “Pasto nudo”, erano así. Insomma Tangeri  sarebbe il luogo giusto per collezionare persone ma l’autore di questo libro non vuole assolutamente farlo, lo scrive con chiarezza:  gli umani sono in continua mutazione, invecchiano e si deformano; il collezionista desidera che ciò che ama resti com’è.

Eppure qui si trovano cammei, resi con pochi tratti di penna e mai crudeli, anche quando sono dettati da sfrenata ironia. Per esempio quelli di Nancy e Sanche de Gramont, i veri precedenti proprietari della casa tangerina  di Pasti: lei scriveva poesie, lui aveva rinunciato al titolo nobiliare francese e da giornalista aveva vinto un Pulitzer, si erano lasciati dietro una vita piena di misteri. Con lo pseudonimo di Ted Morgan, de Gramont divenne biografo di De Gaulle, di Churchill, di Roosevelt e Somerset Maugham. E poi troviamo il grande antiquario Chistopher Gibbs e una deliziosa Patrizia Cavalli capace di comprare 86 paia di babbucce, tutte dello stesso colore e mai identiche, da regalare alle amiche romane. Non mancano le memorabili ultime feste di quella che fu Città internazionale, con tiare di smeraldi e vassoi d’oro e Paul Bowles vecchissimo che russa avvolto in grandi scialli mentre i giornalisti gli chiedono che cosa pensa del film di Bernardo Bertolucci tratto dal suo romanzo “Il tè nel deserto”.  L’eccentricità è il grande gioco che tutto rende possibile, come in sogno e nel “facciamo finta che” dei bambini. Forse è anche uno degli ingredienti del collezionismo, ma non è la sua sostanza.

Arabesco tatuato sulla mano con la henna
Arabesco tatuato sulla mano con la henna

Dunque Umberto Pasti che genere di collezionista è? L’origine e la sostanza della sua vocazione  sono nella lontana profezia di un rigattiere cairota, un tombarolo, un furbacchione di nome Fathi: “Sarai un collezionista di piccole cose, uno vero, non come uno di quegli uomini stupidi accecati dai capolavori”. A quel tempo l’autore era appena sedicenne ma già pronto a saltare un pasto per comprarsi il frammento di un ex voto. Nella sua bottega, mostrando cocci di ceramiche, una bambola d’osso, il monile con cui era stato sepolto un artigiano, Fathi gli spiegava che l’occhio è tutto; e in quelle umili cose il ragazzo intuiva  la vita. La vita com’era: “Se volevo capire il mistero della tarda antichità”,  scrive ora,“il sincretismo favoloso delle sue credenze e superstizioni, i poveri avanzi di quel mondo popolare erano più eloquenti di qualsiasi busto di porfido di tetrarca. Da allora ho sviluppato una diffidenza per tutto ciò che è aulico, e una passione per i manufatti della vita quotidiana”. La mano di un artigiano rivela ciò che il mobile sfarzoso di un principe nasconde dietro alla perizia tecnica. 

  
Allora gli oggetti parlano e che babele, che confusione di storie, di lingue e di epoche, nella casa stipata di Tangeri, col duende stizzito da tutte quelle voci e l’architetto che, nel nuovo padiglione, addestra gli imbianchini sull’uso del colore. Leggendo, immaginavo oggetti in movimento come nell’”Apprendista stregone”, poema sinfonico di Paul Dukas  e incantevole animazione in “Fantasia” di Walt Disney: cose in azione per effetto di magia che poi non vogliono più quietarsi e smetterla. Reclamano cura e attenzione, vogliono raccontare chi sono e da dove vengono e riunirsi ai propri simili, le loro famiglie disperse nello spazio e nel tempo. Questa necessità di ricongiungere trasforma il collezionista in un cacciatore.

Un “falco di buon cuore”, scrive Pasti, pronto ad arrendersi non di fronte alla rarità e alla bellezza ma al “riso inerme” degli oggetti. Lui spende i suoi soldi e rinuncia ad altri agi non per possederli e farli suoi, ma per ridare vita a mondi scomparsi proprio dove lo sviluppo ha spianato quello che c’era come se mai fosse esistito: dice che questa è una forma di preghiera. Ora la costa del Marocco è presa d’assalto dagli investitori cinesi e qatari che costruiscono strade, ferrovie, centri commerciali, palazzi, alberghi e case di vacanza, ma anche qui c’è un’ultima stazione  per i migranti clandestini che abbandonano il continente diretti in Europa con la speranza di un’altra vita. Sono sopravvissuti alla traversata del deserto, si accampano costruendo rifugi di cartone e di teli di plastica, che i soldati distruggono ogni volta che si sigla un accordo per limitare gli arrivi.

I migranti portano con sé piccoli oggetti che rappresentano ciò che si lasciano dietro, cose care e dunque sacre, reliquie che poi devono vendere o barattare nei bazar.  Con loro transitano anche vasi provenienti dagli scavi illegali di antiche tombe violate nel Mali, nel Niger, nei regni Haussa del nord della Nigeria. I reperti archeologici sono nascosti nei fagotti dei disperati e venduti per un passaggio in Europa. “Sopravvissuta a secoli di pace sepolta nella sabbia, e ai mesi del viaggio a piedi con mezzi di fortuna, ogni ampolla, ogni olla, ogni cosa arriva sullo Stretto del miraggio avvolta negli slip e nella camicia di ricambio in fondo alla sacca, tra la foto dei genitori, quella dei fratellini e le scarpe buone. Ciascuna è stata sballottata nella fuga notturna dalle pattuglie militari, e all’alba sotto l’acacia mani febbrili l’hanno tastata per verificare che fosse intatta;  ciascuna ha tremato nel buio di un camion frigorifero che forse non si sarebbe più riaperto; ciascuna ha rischiato di accompagnare nell’aldilà un’anima diversa da quella del defunto con cui era stata inumata, se si chiama anima l’ultimo rantolo della ragazza che sognava di risparmiare lo stesso destino al bambino nella sua pancia”. Ecco, questo raccontano gli oggetti ora nel grande suq mediterraneo.

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