In attesa della notte degli Oscar rilancio il post pubblicato il 29 dicembre 2021.
Il potere del cane di Jane Campion è un film pieno di fascino. Eppure è lentissimo, fatto di vuoti e di silenzi, di infinite sequenze che scrutano paesaggi immobili dove solo alcuni (e non i più fortunati) riescono a scorgere il muso del cane. Quei grandi spazi di colline brulle sferzate dal vento sono potentemente evocativi.
Le colline racchiudono un deserto e infiniti giorni di solitudine e fattorie di legno isolate e scricchiolanti, dove vivono uomini rudi dediti alle mandrie. La gentilezza è data dalla presenza di una bionda che strimpella al pianoforte, e da suo figlio, un ragazzo un po’ effeminato che fabbrica fiori di carta. Per studiare medicina, l’enigmatico adolescente fa pratica sezionando il coniglio che ha appena accarezzato. Crudeltà e delicatezza coesistono.
Il film è stato girato in Nuova Zelanda per le limitazioni imposte dalla pandemia, una terra che lascia immaginare il Montana del 1925, teatro della storia tratta da un romanzo di Thomas Savage, molto di più del vero Montana odierno. E’ come andare ad Asmara, costruita dagli italiani negli anni Trenta, e vederci una Sicilia più siciliana, congelata in un tempo passato spiazzante perché è insieme intatto e corrotto.
Il western di Campion è originalissimo anche per questa ragione. E così era Lezioni di piano, il film pluripremiato che l’ha resa celebre: allora c’era la vecchia Scozia, naufragata e risorta tra i maori a metà Ottocento, nella persona di una musicista vedova e muta, reduce da un pericoloso viaggio insieme al suo pianoforte per andare sposa a un colono dall’altra parte del mondo. E la rigenerazione spuntava dal corpo di lei, violentemente represso e poi mutilato per punizione, che nel nuovo mondo fioriva sensualmente, in assenza di parole, a contatto con una natura primigenia.
Anche questo film, per il quale Campion è già stata premiata a Venezia con il Leone d’argento alla regia, è fatto di silenzio e solitudine sotto cieli selvaggi. Ma qui non assistiamo a una fioritura benefica, liberatoria, la forza della natura che affiora tumultuosa nel corpo di una donna. Qui, al contrario, la natura si vendica di una lunga e inconsapevole vessazione: il rimosso artiglia la vita, manifestandosi nella cattiveria di un mandriano omofobo e misogino, che finisce avvelenato dall’odio di cui si alimenta. La barbarie è nell’ignoranza di sé.
Il titolo, che è anche quello del romanzo di Savage, è ricavato dal Salmo 22 della Bibbia, ed è misterioso, suscettibile di molteplici interpretazioni che lo rendono ancora più intrigante. Ne trovate un repertorio sulla rivista culturale online Pangea con le varie traduzioni, da quella ufficiale della Cei alla Bibbia ebraica, a quella anglicana. L’articolo della rivista non è firmato, ma il direttore Davide Brullo è traduttore dei Salmi e del Libro della Sapienza.
Comunque, leggo su Pangea, “I cani, nel ring biblico, sono le bestie basse, emblema della pura fame, dell’aggressione priva di fierezza: i cani , ‘ringhiano’, ‘divorano’, ‘sbranano’; ‘Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai’ dice San Paolo ai Filippesi. David Maria Turoldo fa del Salmo un inno, canto offeso da balbettare a notte: ‘Dalle spade accorri a scamparmi/ la mia carne, Dio, salva dai cani’”.
Per pura associazione mi viene in mente Cane di notte di Pier Paolo Pasolini: “Cane, tu sei la morte. Fioco mi travaglia/l’allarme del tuo orrore antico,/desto nelle tenebrose notti. Io stringo tra le dita/il mio corpo bambino”.