Questo testo è stato pubblicato su foglieviaggi.com il 23 marzo 2024
Se andate a vedere “Caracas”, il film di Marco D’Amore tratto da “Napoli Ferrovia”, il romanzo di Ermanno Rea, sprofonderete in una città di pece. E non solo perché è notturna e con il lastricato di pietra lavica sempre bagnato, lustrato dall’umidità dei vicoli ingombri di impalcature perenni, illuminati dal giallo tremulo dai lampioni e densi di nebbia. Ma perché è una Napoli di culti oscuri e riti feroci celebrati da mazzieri neofascisti che accoltellano poveri ambulanti e fanno roghi di botteghe e giacigli di cartone, terrorizzando immigrati e prostitute africane. Un inferno dove gli scantinati nascondono le moschee che accolgono i figli di Allah in terra ostile e straniera; e i locali notturni danno lavoro a ballerine vestite di porpora e piume, seducenti e strafatte di eroina.
Anche “La dismissione”, il libro che Rea aveva scritto sulla fine dell’Ilva di Bagnoli e del sogno di riformare la città trasformando la plebe in classe operaia, era un anomalo romanzo-inchiesta: questo, infatti, prima ancora che quello di scrivere era il suo modo di guardare il mondo. D’Amore ci fa vedere una “città-spugna”, che tutto assorbe e restituisce “con il proprio sigillo”, simile a quella che ossessionava Rea: somiglia ma non è la stessa. Per scrivere “Napoli Ferrovia” Rea era sceso all’inferno con lo smarrimento di chi sente di appartenere al passato e viaggia tra i rottami del mondo post-ideologico, sperso in un day after senza punti di riferimento. Quel salto in un futuro senza legge e senza morale dopo che tutto è andato in frantumi, così proprio della fine del secolo, nel film non si percepisce più.
Del resto sono passati più di vent’anni e Marco D’Amore appartiene a un’altra epoca. Quando Rea, che era nato nel 1927, cominciò la sua inchiesta notturna, era già quasi ottantenne: ‘Napoli Ferrovia’, oggi nel catalogo Feltrinelli, uscì in prima edizione da Rizzoli nel 2007 e ancora mi commuove l’idea del suo coraggio e dei rischi che si era preso per quella discesa nel buio. Era capace di entusiasmarsi come un ragazzo e lavorava da cronista fuoriclasse, ascoltando il respiro della strada, il lessico e la parlata della gente, cercava un’immagine rovesciata del mondo, costruiva i suoi libri con un lavoro di preparazione meticoloso. Per poi tradirlo, naturalmente: uno scrittore è qualcosa di più di un cronista, ha una specie di terzo occhio con il quale sa guardare oltre le cose, per trascenderle e cercare quello che nascondono. Nel film c’è una scena che rende molto bene: il vecchio scrittore (Toni Servillo) torna a Napoli a corto d’ispirazione, ha deciso che smetterà di scrivere, ma uno scugnizzo gli ruba la borsa con dentro il suo ultimo scartafaccio e lui lo insegue, si perde nel dedalo dei vicoli fino alla tana dove vive Caracas, il naziskin che al momento gli mette il coltello alla gola, ma poi diventerà la sua guida nel mondo notturno della Ferrovia.
Nella versione di D’Amore lo scugnizzo è palesemente il coniglio di Alice che guida lo scrittore in un sottosuolo che rigurgita vita e disperazione, eros e violenza. Un mondo onirico, l’inconscio dello scrittore, una casa di fantasmi dove prendono forma i personaggi e nascono le storie, dove abitano i suoi dèmoni. Il vero Caracas che pure esiste (davvero Rea divenne amico e scelse un naziskin come guida) e la vera Napoli, sempre uguale e sempre diversa, sono solo antefatti, premesse. Ermanno Rea è vissuto seguendo le sue passioni, era un giornalista letterato, un tipo alla Gay Talese. A sedici anni era stato “partigianello”, come scrive lui, sulle Alpi Apuane (allora la sua famiglia si era trasferita a Carrara).Tornato a Napoli, nel dopoguerra fu cronista a L’Unità, ma il giornalismo politico gli stava stretto e nel 1959 se ne era andato a Milano, dove fu al Giorno che era una fucina di talenti, a Panorama, a Tempo illustrato.