Manco da un po’ su questa pagina, ho avuto un piccolo incidente e sto ancora curando i postumi di una frattura. Per molto tempo ho fatto tutto con una sola mano. Adesso ho ripreso a zampettare sulla tastiera con tutte e due, anche se il recupero è lento e faticoso. Sono rimasta indietro ed è inutile cercare il passo perduto. Come in ogni diario, si guarda avanti. E purtroppo davanti c’è la guerra: un flusso continuo di immagini e notizie su bombardamenti e assedi di città.
Incredibile svegliarsi nel 2022 e assistere in diretta all’occupazione militare di un paese europeo per ridisegnare la carta geografica. L’invasione russa dell’Ucraina appariva impensabile e invece eccola: la Storia è tornata, hanno scritto in molti. Si fa sui nostri schermi, ci salta addosso in cucina mentre prepariamo la cena, soffocate tra strazio e impotenza. Davanti a un gigantesco spettacolo, un reality dove anche tu che peli le patate e posti un commento sui social hai la tua piccola parte.
Ecco le improvvisate fabbricanti di molotov. Sembrano signore e ragazze intente a imbottigliare i pomodori, invece fanno bombe incendiarie con bottiglie riempite di polistirolo e benzina. La fionda contro il carro armato. Poi comincia l’esodo delle carrozzine, le mamme che trascinano i trolley con i piccoli in braccio, i nonni in fuga con gli animali d’affezione. Girava il tweet di una madre che ha detto alle bambine: “Lasciate i gatti che ve li ricompro in Polonia”. E loro: “Non se ne parla, ricomprati le figlie”. L’esodo conta già quasi tre milioni di profughi con i quali ci identifichiamo più che con altri rifugiati. È inutile negarlo, ci somigliano, siamo noi. E col passare dei giorni la scena è sempre più cupa: ospedali bombardati, città affamate, corridoi umanitari attaccati, carneficine, fosse comuni e accuse di atrocità.
Conosco una vecchia signora che non vuole più vedere la guerra di quando era piccola e invece se ne sta ipnotizzata davanti alla televisione, dove il suo malefico incubo è tornato. I traumi restano lì, accanto a te, col tempo sopiscono e si viene a patti, ma a volte qualcosa di brutto li risveglia e allora rimettono in circolo il materiale tossico rimasto a lungo inerte. La mia amica dice che non vale la pena vivere ancora per vedere le bombe che cadono, tornare alla paura e al buio, ascoltare la voce rauca delle sirene, temere per le famiglie distrutte e in fuga e per le persone rastrellate che non tornano a casa.
La possibilità, forse a suo tempo ragionevole, di trovare una composizione dando spazio anche alle preoccupazioni russe per la progressiva espansione della Nato verso est, con aree di neutralità intermedie, appare stravolta da fatti tremendi e sanguinosi. Era l’opzione realista di Henry Kissinger, che l’aveva scritto otto anni fa. Dopo la battaglia di Kiev, a Majdan Nezaleznosti , quando il presidente filorusso Yanukovic aveva rifiutato di firmare l’accordo con l’Unione europea ed era stato cacciato a furore di popolo. Kissinger raccomandava di aver cura di tre cose: accogliere l’Ucraina in Europa, tenerla accuratamente fuori dalla Nato, renderla neutrale come la Finlandia. Nulla di tutto questo è stato fatto e ora non c’è che proteggere gli aggrediti e aiutarli a resistere con viveri e armi. Ognuno faccia quello che può e metta un nastrino giallo e blu, i colori ucraini, sul bavero della giacca. Tenere alla pace non è essere equidistanti. L’occupante e l’aggredito, l’invasore e il partigiano, non sono la stessa cosa.
Si legge che a spaventare Putin, più che le basi Nato nell’Europa dell’Est, sia l’avanzata verso Mosca della democrazia liberale, della voglia di essere liberi e indipendenti dei paesi ex sovietici: prima dell’Ucraina ci sono state la Cecenia, la distruzione di Grosny, e poi l’invasione della Georgia e poi l’annessione della Crimea … È un modello che si replica, eravamo distratti e non ce ne siamo accorti: questi paesi chiedono l’ombrello Nato per paura di essere invasi se scontentano Mosca. E sappiamo che a tanti russi questa guerra ripugna, è la guerra del tiranno, si fanno arrestare per dirlo, rischiano quindici anni di carcere per far sapere al mondo che non sono d’accordo. Ma la propaganda di guerra va avanti inesorabile e, qui da noi, si rompono amicizie e si toglie il saluto a chi non capisce o non vuole schierarsi. Arrivano i profughi e i primi piccoli ucraini nelle nostre scuole. La macchina delle sanzioni, mai sperimentata prima su larga scala, fa traballare l’economia mondiale. Quanto siamo disposti a pagare per difendere l’Ucraina? Mentre scrivo Kiev è allo stremo.
La guerra è caos, migliaia di attori diversi si muovono sulla stessa scena con interessi e pulsioni contrastanti. Capire dove va a finire e come si risolve, dove il piano militare e quello diplomatico possono incontrarsi, appare impossibile. Ma certo al tavolo di una trattativa ognuno dovrà cedere qualcosa. Smetto perché detesto la chiacchiera geopolitica dilettante quanto i virologi della domenica.
Se avete tempo, e se tra il 2013 e il 2015 eravate distratti, su Netflix si può vedere Winter on fire: Ukraine’s Fight for Freedom ( in streaming qui), il docufilm di Evgeny Afineevsky presentato nel 2015 alla Mostra del Cinema di Venezia: è la storia dei 90 giorni di Majdan Nezaleznosti , la battaglia di strada di Kiev. Pacifiche manifestazioni e poi scontri, barricate, arresti di gente comune, di ragazzi e di vecchi, di preti e casalinghe che hanno cominciato ad armarsi di sassi e di molotov per resistere ai reparti antisommossa, reclamando l’ingresso dell’Ucraina in Europa. Un passo sempre promesso e mai compiuto.
Vedrete che gli ucraini sono un popolo giovane, non solo in senso anagrafico: lo sono per desiderio di una libertà che non hanno ancora pienamente conosciuto, per fede nei loro ideali, per inconsapevolezza dei loro errori. E sono disposti a mettere in gioco la vita con lo slancio dei ragazzi di due secoli fa, quelli che resistettero al Gianicolo contro i francesi per la Repubblica romana.