Jessie White Mario, la reporter di Garibaldi

Antenate del giornalismo/2. L'inglese che voleva fare il medico e che divenne inviata di guerra nella spedizione dei Mille. Fece una clamorosa inchiesta sulla miseria di Napoli. La chiamavano Ms. Uragano

Jessie White Mario

A chi vuole fare i conti con la povertà ignaro degli effetti collaterali dell’assistenza bisogna presentare la signora Jessie White Mario.  L’avvocato Ernesto Pozzi da Acquate – il paese di don Abbondio,  nel lecchese – che da studente era stato volontario con Garibaldi e l’aveva incontrata nell’accampamento di Mentana, ne parlò come del “più caratteristico tipo garibaldino”. Eccola: “ Infermiera, medichessa, diplomatica, corrispondente di fogli inglesi e americani, soccorritrice con rischio di vita da una colonna all’altra, ambasciatrice fra gli eserciti, irrequieta e sempre britannicamente flemmatica, genio del bene e provvidenza di tutti”. Ma, naturalmente, non mancavano i detrattori, come lo storico filo borbonico Giacinto de’ Sivo, che menziona con astio “certe dame forestiere, facenti le soldatesse o le infermiere a pompa”.

La partenza dei Mille da Quarto
La partenza dei Mille da Quarto.  Wiki commons

Era il 1867 e Jessie White aveva già sulle spalle la spedizione dei Mille: prima giornalista embedded con l’esercito garibaldino, si direbbe oggi. Nel tempo, scrisse per il Daily News, per The Nation, Daily Star, Scotsman e per la Nación di Buenos Aires. La stampa estera era avida di racconti sul Risorgimento italiano e sulle imprese di Garibaldi. Eppure Jessie era diventata giornalista per ripiego. La ragazza inglese che arrivò in Italia diversi anni dopo Margaret Fuller – la prima donna corrispondente di guerra per la stampa americana nella Roma assediata dai francesi del 1849 –  in realtà voleva fare il medico. Ma allora al college non prendevano studentesse: la London School of Medicine for Women avrebbe aperto solo nel 1874. Così dovette desistere anche se, alle arti mediche, Jessie non rinunciò mai: durante la spedizione dei Mille organizzò ospedali da campo, assisteva i chirurghi mentre operavano,  praticava cure ai  feriti.

Nata nel 1832 vicino a Portsmouth in un’agiata famiglia di armatori, Jessie White si era appassionata al pensiero di John Stuart Mill, all’emancipazione femminile e alla questione sociale, ed era andata a completare gli studi di filosofia a Parigi, alla Sorbona. Era amica di Emma Roberts, una ricca signora legata sentimentalmente a Garibaldi, fu lei a portarla a Nizza e poi in Italia nel 1854. Conobbe il generale reduce dallo sfortunato epilogo della Repubblica romana e ne rimase affascinata. Quando, a Londra, incontrò Giuseppe Mazzini entrò nel cerchio magico delle sue sostenitrici e decise di dedicarsi alla causa risorgimentale italiana: teneva conferenze  e raccoglieva fondi, tradusse il libro di Felice Orsini sulle carceri austriache divenuto un best seller.

Nel 1857 Jessie White era in Italia e fu coinvolta nei moti mazziniani di Genova, lì conobbe Carlo Pisacane che le affidò il suo testamento politico e poi Alberto Mario, con il quale sarà arrestata. I due, che a guardare bene i ritratti si somigliano vagamente, come fossero fratelli, ripareranno in Inghilterra, si sposeranno civilmente e partiranno per gli Stati Uniti a organizzare una campagna di supporto per l’indipendenza italiana: avevano capito che, senza un polmone internazionale, la causa sarebbe rimasta presto a corto di ossigeno e morta d’asfissia. Jessie era ormai White Mario, da quel momento firmerà così.

Tra l’affettuoso e il sarcastico, Mazzini la chiamò Miss Hurricane. Quelli che la conobbero dissero che era severa, volitiva e generosa di sé. Jessie W. Mario –  aveva italianizzato il suo nome redigendolo così – di quello che considerava il suo maestro scrisse una monumentale biografia. “Vita di Giuseppe Mazzini”,  volume apparso per la prima volta da Sonzogno nel 1885, è tornato quest’anno pubblicato da Castelvecchi a cura di Marco Pizzo, che nella sua introduzione osserva come in questa narrazione fluviale “biografia e autobiografia si confondano delineando la fisionomia di un gruppo di persone, animate da ideali comuni, che si spostano per l’Europa in preda a una vitale irrequietezza”. Il libro di Jessie, che fu biografa anche di Garibaldi e di altri patrioti, sfiora l’agiografia, ombreggia  i contrasti tra Mazzini e il generale ed è sicuramente di parte, critico con Cavour e la soluzione monarchica. Ma certo la sua voce, che parla nella lingua dell’Ottocento, trasmette ancora vividamente il sapore di quei giorni, l’entusiasmo e il gusto acre della sconfitta, lo spirito di una generazione innamorata della libertà e capace di mettere a rischio la vita sopportando derisione e calunnia.

Giuseppe Garibaldi 1861
Giuseppe Garibaldi, 1861

Nel 1860, quando si diffuse la notizia che Garibaldi era appena sbarcato in Sicilia, Jessie White e Alberto Mario, che si trovavano a Lugano con Mazzini e Cattaneo, si affrettarono a raggiungerlo imbarcandosi da Genova per Palermo. Mario affiancò Garibaldi nella risalita, anche se politicamente era un federalista vicino a Cattaneo: giornalista anche lui, dopo il 1870 divenne direttore della Gazzetta di Mantova. Quanto a Jessie, che nel corso della spedizione curava soldati feriti e scriveva le sue corrispondenze, fece un’esperienza straordinaria: vide da vicino le miserie del Sud, dalle solfatare siciliane ai vicoli di Napoli. E non si accontentò di raccontare ai suoi lettori che i briganti erano guerriglia reazionaria al soldo del Borbone, volle capire. Jessie White Mario è l’autrice della prima vera inchiesta giornalistica realizzata dopo l’Unità d’Italia con gli stessi criteri che usiamo oggi: andare direttamente sul campo a verificare i fatti, integrandoli con interviste, dati, risultati di studi e ricerche.

“La miseria di Napoli” uscì a puntate nel 1876 su Il Pungolo, che allora era un autorevole giornale della città e fu poi ripubblicata in volume nel 1877, con dedica a Giuseppe Mazzini, dall’editore fiorentino Le Monnier (la prima edizione ora si può trovare in rete). Si tratta di un vero reportage, scritto a caldo, dopo sopralluoghi fatti nei luoghi più oscuri e malfamati, un autentico viaggio nelle piaghe di Napoli. Jessie era rimasta impressionata non solo da quello che aveva visto risalendo il Sud con la spedizione dei Mille, ma anche dalla lettura delle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, che erano state attaccate da quanti sostenevano che i miserabili si trovavano ovunque in Europa, anche nei bassifondi di Londra e di Parigi. Allora perché menare scandalo? Così si era messa in contatto con Villari, che l’aveva invitata ad andare a vedere di persona. In una lettera, Villari le aveva scritto che, a fare diverso il Sud d’Italia, era in buona sostanza l’ignavia politica: il parlamento inglese aveva fatto “leggi sopra leggi”  per combattere la povertà, l’Italia invece era ferma al “lasciate fare, lasciate passare”.

Jessie  da parte sua commenta che il vantaggio dell’aristocrazia inglese  si deve al fatto che “vive osservatrice vigile, scrutatrice profonda dei segni del tempo, e dell’umore giornaliero della nazione. Quando sa di dover cedere sopra un dato punto, essa cede prima di doverne ricevere l’intimazione, e cede con tanta grazia e buon garbo, che spesso figura d’essere lei l’iniziatrice della desiderata riforma o della concessione”. Del resto, anche la borghesia “non si lascia venire l’acqua alla gola, al primo segno di marca allestisce la barca di salvamento” e i pensatori, nei libri e nei giornali, “avvertono dei pericoli”. In Italia no, chi solleva problemi dà fastidio, qui vige la convenzione “acqua in bocca”, “non isvegliate il leone che dorme”, finché il leone non avvertirà uno spasmo troppo acuto da gridare: “Dammi la mia parte della comune eredità, chè troppo tempo l’hai sfruttata per tuo proprio conto!”.

Per fare la sua inchiesta, White si trasferì a Napoli. Aveva quarantaquattro anni e portava con sé lettere del Ministero dell’Interno con l’autorizzazione a entrare in “luoghi o stabilimenti, ove difficilmente occhio profano era dapprima penetrato”. Si procurò tutto sull’argomento ma,  prima di leggere, andò a vedere. Per mesi ispezionò grotte e sotterranei dove vivevano, letteralmente, uomini trogloditi e dove si respirava “carbonio puro”; visitò bassi definiti “stomachevoli canili”, attestò che gli orribili fondaci descritti da Villari esistevano e che c’erano dormitori per chi non aveva un ricovero: nella sola zona Porto ce n’erano 105, con circa 2800 letti, in ciascuno si coricavano da due a sei persone. Fece un ingrandimento sulla prostituzione considerandola una forma di schiavitù che dava da mangiare a tremila donne registrate, “in piena balìa delle infami tenitrici dei prostriboli”, oltre a un numero incalcolabile di clandestine: più del doppio – scrive. Tanto che c’erano madri di famiglia, in esercizio per mantenere i figli, per le quali il meretricio era un lavoro come un altro.  Nella sua ricognizione, imponente per l’epoca, va a vedere sifilicomi, ospedali, brefotrofi, scuole, istituzioni per disabili, carceri con detenuti che si sono lasciati arrestare perché almeno mangiano. E poi le Opere pie, esamina i presunti rimedi, qui comincia la parte meno prevedibile del suo viaggio.

In Italia allora esistevano più di ventimila istituzioni dedite all’assistenza dei poveri, con un patrimonio ragguardevole. White esamina studi sulla legislazione contro la povertà in Gran Bretagna, sa che i rimedi sono stati spesso fallimentari, soggetti a forme di speculazione e che hanno prodotto danni collaterali. Come quello, cita Herbert Spencer, “di aiutare gli oziosi indegni a moltiplicarsi, a spese degli onesti e laboriosi”. E conclude lucidamente: “L’azione delle leggi dei poveri in Inghilterra per incoraggiare l’ozio, il pauperismo, l’improvvida moltiplicazione della specie, corrisponde in Italia e in Napoli – in primo grado in Napoli – all’azione delle Opere pie. E qui e là ci sono poveri inabili al lavoro, e qui e là ci sono istituzioni e fondi per sopperire veri bisogni; ma i poveri rimangono senza soccorso, e i fondi sono consumati dagli oziosi, dai viziosi e dai loro manutengoli”. Inizia qui una minuziosa indagine sulle 349 Opere pie della città, che si occupano di nutrire ed educare bambini poveri, crescere orfani, accogliere donne nubili, sole o malmaritate, ospitare vecchi e inabili al lavoro, istruire ragazzi e ragazze da avviare a un mestiere. Non riuscì a visitare tutti gli istituti, ma si disse certa di aver registrato “meno del vero e che sussistano cose peggiori da vedere, e rivelazioni più gravi da fare”.

Il libro di Jessie White, La miseria di NapoliPrendiamo, come paradigma, l’esame dell’istituzione più grande, il Reale Albergo dei Poveri, di cui Jessie considera tutto: qualità del cibo, dell’igiene, degli abiti, delle scuole, dei laboratori per l’apprendimenti dei mestieri come sarto, calzolaio, falegname, ricamatrice …; e poi gli opifici per l’avviamento al lavoro: fabbriche di chiodi, spilli, piastre da fucile ma anche tessitura e lavorazione del vetro, una stamperia. Distingue un’epoca splendida intorno al 1835 con gente ben nutrita, istruita e attiva quando può lavorare, altrimenti sostenuta decorosamente. Da allora in poi nota un fenomeno strano: il numero degli assistiti diminuisce, praticamente si dimezza, mentre crescono il disavanzo e la spesa. Nel 1876,  anno dell’inchiesta, gli ospiti mantenuti sono poco meno di duemila e costano quasi un milione e 200mila lire dell’epoca. Tuttavia il cibo è insufficiente e di qualità scadente, ad eccezione di quello per infermi e sordomuti; l’igiene è scarsa, la vita sedentaria, gli ospiti hanno colorito terreo e carni flosce, solo i dormitori delle donne risultano puliti, ma le stanze sono umide e si ricamano corredi sui quali l’istituto guadagna, però nessuna ricamatrice sarà mai in grado, in futuro, di aprire un suo laboratorio, perché il lavoro è troppo parcellizzato e nessuna vede l’intero processo. Nei laboratori per falegnami non ci sono né maestri né legname, solo la scuola per sordomuti brilla come un’eccellenza. Per questi pessimi risultati lavorano 700 persone ben pagate tra direttori, capi e sottocapi, maestri, inservienti, cappellani… Un impiegato ogni 3 poveri, senza contare gli ecclesiastici. Non serve aggiungere niente. I regolamenti sono agghiaccianti, nell’Albergo ci sono due caste: superiori e inferiori, a questi ultimi è interdetta la rimostranza “quand’anche si credessero ingiustamente puniti”. “Ci sembrava trasognare”, commenta Jessie, vedendo che il Regolamento “è firmato da uomini appartenenti al partito liberale”.

Che la burocrazia dell’assistenza divora i soldi destinati ai poveri si sapeva già nel 1876. Il lavoro di White è corredato da una bibliografia ragionata e da un paragone tra le legislazioni di vari paesi europei. Contiene proposte avveniristiche come l’abolizione del registro delle prostitute (fatto nel 1958),  l’istituzione della scuola dell’obbligo, gratuita per tutti (1962), il divieto del lavoro minorile (1967). Rimasta vedova, Jessie White Mario  visse a Firenze facendo l’insegnante di inglese, è morta in miseria come molti garibaldini. Dopo l’epidemia di colera del 1884 il governo Depretis annunciò il risanamento del centro di Napoli con l’abbattimento dei quartieri più degradati. Allora un’altra grande giornalista, fondatrice e direttrice di quotidiani, scrisse –  più che un’inchiesta – una formidabile arringa intitolata “Il ventre di Napoli”. Era Matilde Serao.

Il precedente articolo sulle antenate del giornalismo in Italia, dedicato a Margaret Fuller, è stato pubblicato il 12 settembre 2022.

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