La dea Ingrid

Omaggio alla diva di Casablanca, che compie un secolo

Ingrid Bergman

Ingrid Bergman compie un secolo. Nata a Stoccolma il 29 agosto 1915, ha descritto un’orbita perfetta e come una cometa se n’è andata 67 anni dopo, è morta a Londra per un cancro al seno esattamente nello stesso giorno. 

Se gli dèi e gli eroi della Grecia classica sono diventati asilanten e si sono rifugiati in Germania nel XVIII secolo, le dèe dell’Olimpo sono emigrate nella fabbrica dei sogni e da più di cent’anni custodiscono l’immaginario. Non è Marylin con la gonna svolazzante sulle grate della metropolitana di New York la Venere del XX secolo? Ma le  nuove dèe sono spesso ipostatizzate in un gesto, in una postura, come farfalle rarissime infilzate da uno spillo. Poche conservano ai nostri occhi la plasticità e il movimento della vita.  Audrey Hepburn è per sempre la ragazza – cerbiatto, tenera e svagata; Marlene è dominante e fatale:  lo era giovanissima nell’Angelo azzurro, lo rimase settantenne vestita da sirena… Ingrid Bergman no, è un’icona mutante: la sua immagine cambia nei cinquant’anni della sua carriera artistica e oggi possiamo guardarla in sequenza. Una luminosa ragazza senza un filo di trucco, una donna elegante, un’innamorata che si lascia guidare dalla passione e sacrifica tutto, una moglie adorata ma più tardi abbandonata per un’altra, la madre di quattro figli, un’artista che non si accomoda nel suo successo e rischia con un nuovo ciclo creativo, una divorziata che prova a tenere insieme famiglie allargate ante-litteram, una signora matura che non nasconde l’età… Molte vite in una sola, una femminilità complessa, che  in questo instabile equilibrio trova la sua pienezza, ne è gratificata, gode di stagioni felici.

Così, per ricordare Ingrid Bergman un secolo dopo si guarda soprattutto la sua personalità moderna. Se volete andare a cercare i segni del tempo, li troverete nell’attrice più che nella donna: un certo pathos che non si porta più, un eccesso di traspirazione emotiva, un fraseggio che la colloca in un’ epoca precisa, ma la sua personalità ci è contemporanea. Così molti dei tributi del centenario parlano di miss Bergman più che della diva.

E  tutto comincia a Cannes con il sorriso di Ingrid, fotografata da David Seymour, che giganteggiava sulla Croisette e con l’anteprima mondiale del documentario di Stig Bjorkman, Ingrid Bergman – In her own words,  costruito con materiali d’archivio privati e inediti messi a disposizione dalla famiglia. Poi le rassegne con film restaurati che si rincorrono per tutta l’estate in Europa e in America e a settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia, arriva Viva Ingrid! , evento speciale alle Giornate degli autori: un montaggio di cinegiornali d’epoca, brani di film di Rossellini e filmini di famiglia, in gran parte girati dalla stessa Bergman. Prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà e firmato da Alessandro Rossellini, figlio di Renzo, il documentario racconta gli anni italiani dell’attrice. 

 Intanto, l’11 agosto  Shirmer/Mosel  ripropone in paperback “Ingrid Bergman. A life in Picture”, con 385 immagini in gran parte private,  a cura di Isabella Rossellini e Lothar Schirmer:  in prenotazione on-line nei bookshop internazionali, costa meno della metà della precedente edizione hard cover. Per i collezionisti, in Gran Bretagna è appena uscito il cofanetto The Roberto Rossellini Ingrid Bergman Collection, un’edizione limitata in Blu-ray  prodotta da BFI e contenente tre film girati insieme: Stromboli, Viaggio in Italia  e La Paura. Chi va in vacanza in Svezia può fare un Bergman tour a nord di Goteborg, all’isola di Dannhalmen, dove Ingrid ha passato le vacanze con i figli e l’ultimo marito Lars Schmidt, e vedere le mostre fotografiche allestite a Fjallbacka e a Marstrand.  Il Servizio postale degli Stati Uniti ha concordato con le Poste Svedesi l’emissione di un francobollo che sarà messo in vendita il 20 agosto in tutti e due i paesi.  E mentre sta per finire la retrospettiva della Cinémathèque Fraçaise, il 29 agosto a Stoccolma partirà quella del Swedish Film Institute, che è in contemporanea con la rassegna del Moma a New York che dura fino al 10 settembre. Seguirà subito dopo la retrospettiva della BAM, la Brooklyn Academy of Music dove – il 12 settembre – Isabella Rossellini e Jeremy Irons porteranno in scena il loro The Ingrid Bergman Tribute. Spettacolo scritto da Ludovica Damiani e Guido Torlonia che l’11 ottobre vedremo  anche a Roma, all’Auditorium,  con Isabella Rossellini e Christian De Sica.

 In questa maratona di ricordi destinati al pubblico globale del XXI secolo, è stato anche annunciato che sarà James Mangold a dirigere il film, tratto dal romanzo di Chris Greenhalgh  “Seducing Ingrid Bergman”,  sulla storia d’amore che la legò per breve tempo al celebre fotografo di guerra Robert Capa. E forse per raccontare miss Bergman è più divertente cominciare da qui, dal primo indizio di inquietudine di una diva rinata tre volte: in America, in Italia, a Parigi.  Anziché partire come si dovrebbe dal principio, dalla bambina di Stoccolma  che perse la madre a soli tre anni e divenne modella di un padre fotografo, traendone incredibile naturalezza davanti all’obiettivo che l’avrebbe poi resa una star.

Dunque siamo a Parigi nel 1945, all’Hotel Ritz, la guerra è appena finita. Bergman arriva il 6 giugno per spettacoli di intrattenimento delle truppe americane in Europa. Entrando in albergo incontra Marlene Dietrich, che era lì da un bel pezzo e che le sibila: “Siete in ritardo”. Ingrid ha trent’anni ed è già molto famosa, ha lavorato con registi come George Cukor, Victor Fleming, Alfred Hitchcock e ha interpretato film come Casablanca (1942 –  Oscar al film, alla regia, alla sceneggiatura ), Per chi suona la campana (1943 – nomination all’Oscar come miglior attrice), Angoscia (1944 – Oscar e Golden Globe come miglior attrice), Io ti salverò (1945). Storie nelle quali sembrano curiosamente concentrati tutti gli elementi di quello che sta per accadere: l’incontro folgorante con  una passione impossibile come quella di Ilse e Rick, gli apolidi di Casablanca; la guerra come grande epopea, come nei romanzi di Hemingway e nelle foto di Capa, i dèmoni di lui e le paure di lei, l’amore che quasi mai salva qualcuno da se stesso.

Ungherese di nascita, vero nome Endre Friedmann, Robert Capa aveva trentadue anni, parlava cinque lingue, aveva senso dell’umorismo e grande fascino. Era il fotografo di guerra più conosciuto della sua epoca per aver documentato la guerra di Spagna – dove la sua compagna, Gerda Taro, era rimasta schiacciata sotto un carro armato – lo sbarco di Anzio, l’invasione della Normandia, la liberazione di Parigi…Con Irwin Shaw, allora sceneggiatore e non ancora scrittore, misero un biglietto con un invito a cena sotto la porta della stanza d’albergo della diva, la portarono in un ristorante alla buona, risero tutta la sera.  Cominciò così, Bergman e Capa si innamorarono.

Era un momento di passaggio nella biografia di entrambi: ognuno dei due cercava una strada diversa. Finiva la guerra e lui, che si era nutrito di adrenalina e polvere da sparo, avrebbe dovuto adattarsi al tempo di pace. Tentò ma non ne fu capace: beveva molto, giocava d’azzardo finché perdeva tutto, era divorato dalla colpa di essere rimasto in vita. Alla sua biografa Charlotte Chandler – che ne riferisce in “Ingrid Bergman”,   Frassinelli  2007 –  l’attrice lo descrisse così: “Era coraggioso, troppo coraggioso, intelligente, buffo. E romantico (…) Per immergersi nel pericolo disse che doveva essere libero. Io rispettai il suo volere, preoccupandomi tuttavia del fatto che il suo ultimo scatto sarebbe stato di una persona che gli puntava la pistola contro”. Incaricato da Life di seguire la guerra d’Indocina, Capa  saltò su una mina in Vietnam nove anni più tardi, nel 1954. 

Quando lo incontrò, anche Bergman era alla fine di un ciclo nella vita personale e in quella creativa. Grandi crepe si erano aperte nel rapporto con il primo marito Petter Lindstrom, il medico svedese che aveva sposato a ventidue anni e da cui aveva avuto una bambina che allora ne aveva sette. Lindstrom le aveva dato una famiglia – importantissima per Ingrid, orfana anche del padre a soli tredici anni, cresciuta con gli zii, precocemente indipendente per necessità. Da marito Petter era diventato il suo manager, aveva intelligentemente capito che la minaccia nazista avrebbe travolto l’Europa e l’aveva portata in America, per lei decideva tutto. Solo che col tempo – negli agi di Beverly Hills – era diventato un trainer ossessivo, che le imponeva disciplina, diete, ginnastica… Anche sui film da fare e sullo sviluppo della sua carriera di attrice non andavano più così d’accordo. “Cominciai ad avere l’impressione – riferisce Bergman  a Charlotte Chambler – che mi vedesse come una proprietà privata da custodire”. 

Dopo Parigi, Ingrid torna disciplinatamente a casa in tempo per il primo giorno di scuola della figlia e per la chiamata sul set di un nuovo film di Hitchcock, Capa promette di pensare alla possibilità di trasferirsi in America e aprire uno studio a Hollywood. Il film che venne di lì a poco era Notorius; sui giorni con Robert e sull’infelicità del suo matrimonio, Ingrid si confidò con Hitch.   Scrive Donald Spoto –  anche lui biografo di star, in “Notorius. La vita di Ingrid Bergman”, Lindau 2007 – che il genio malefico di Hitchcock trasformò il mood dell’amore impossibile per Capa nell’interpretazione più intensa di Ingrid Bergman. Un dramma dell’ambiguità: la storia di una donna senza amore, di un uomo terrorizzato dall’amore e di un marito tradito a causa dei suoi interessi. Robert Capa arrivò a Hollywood prima di Natale,  la produzione lo ingaggiò per le foto di scena di Notorius.

Traiettorie di vita troppo diverse, non poteva durare e non durò. Ma la virata esistenziale era fatta: con Capa e con il viaggio nell’ Europa distrutta dalla guerra,  Ingrid aveva scoperto altre possibilità espressive e una sessualità più generosa e appagante. La realtà era molto più interessante dei copioni dei film, cominciò a cercare altro. Fu così che 1948 vide a New York Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini, e gli  scrisse di getto la mitica lettera in cui diceva che se aveva bisogno di un’attrice svedese, che in italiano sapeva dire soltanto ‘ti amo’, era pronta a venire a girare un film in Italia. Da quella lettera sarebbe nato un amore, tre figli, sei film,  uno scandalo internazionale e un’altra Bergman.  

Ormai sappiamo tutti che la lettera non conteneva altro desiderio se non quello di un’esperienza artistica nuova e che Rossellini, allora legato ad Anna Magnani,  era certamente lusingato ma a malapena conosceva la Bergman  – lo ha ricostruito benissimo Marcello Sorgi in “Le amanti del Vulcano”, Rizzoli 2010. Però, il giorno in cui ad Amalfi prese in testa la famosa cofana di spaghetti lanciata dalla Magnani furiosa, Rossellini  aveva già capito che fare progetti con l’attrice più famosa del momento avrebbe dato ossigeno alle sue idee e lo avrebbe aiutato a finanziare i suoi film.

Ingrid Bergman venne in Italia per lavorare a Stromboli nel 1949, arrivò il 20 marzo e restò incantata dall’accoglienza, dal calore del mondo mediterraneo; il 3 aprile –  due settimane dopo – scrisse al marito per spiegare che si era innamorata di Rossellini e chiedere il divorzio. Dovette rinunciare alla  figlia che non poté rivedere fino al 1951, fu messa al bando da Hollywood e dagli Stati Uniti come persona non gradita.  La violenza dello scandalo, oggi incomprensibile, risentiva  del vento che cominciava a soffiare sul mondo del cinema, alimentato  dal Comitato per le attività anti-americane. Ma c’era anche una specie di boomerang mediatico: come attrice, Bergman aveva rotto i vecchi cliché imponendo autenticità e naturalezza, appariva così onesta e intensa perché  – si diceva – era se stessa. Di colpo, apparve falsa, come se avesse sempre mentito a tutti.

Nei filmini di famiglia dei Rossellini, montati nei documentari di questo centenario, si vede che i due erano veramente innamorati, lo si capisce dagli sguardi, dai gesti, dalle tenerezze, in immagini non posate per il pubblico. Tutto il resto è storia:  per sei anni Rossellini fece di Bergman la sua musa e le impedì di lavorare per chiunque altro; i film girati insieme non ebbero successo.

Nella maturità, Ingrid capì e disse che non erano simili come aveva creduto,  erano opposti. Lui un genio dell’improvvisazione abituato a usare attori non  professionisti, lei una professionista forgiata dagli studios che del film doveva sempre sapere e studiare tutto. Ne uscirono prendendo atto del fallimento. Rossellini partì per l’India,  da dove sarebbe poi tornato con un’altra moglie, Sonali Das Gupta, e altri figli. Bergman accettò una proposta di Jean Renoir: il film era Eliana e gli uomini e la rimetteva nel circuito internazionale del cinema, subito dopo fece Anastasia  che, nel 1957, le valse un altro Oscar. Si erano riaperte le porte di Hollywood.  

A 43 anni Bergman ricomincia un’altra volta, vive a Parigi e farà ancora molti film. Colpisce che il cerchio si chiuda con un ritorno alle origini, alla Svezia e al teatro (aveva cominciato come allieva della Reale Accademia di Arte Drammatica). Sposa il produttore teatrale svedese Lars Schmidt e con lui passerà le estati sull’isola di Dannhalmen, dove nel 1962 andrà a intervistarla anche Oriana Fallaci. In  “Gli Antipatici”, BUR  2014, Oriana la descrive così: “Americana in America, italiana in Italia, ora francese in Francia(…) la maturità comincia a pesarle e solo il corpo si mantiene giovane e asciutto. Ma lei accetta le rughe come si accettano la pioggia e il sole, l’inverno e l’estate, la vita e la morte: con la serenità di chi capisce che la stagione delle avventure è finita e bisogna pur prepararsi a vestire di grigio per tornare un giorno al villaggio. Come Peer Gynt”.  

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