Un libriccino pieno di fascino, rilegato a mano nel 1916 probabilmente da Benedetto Croce in persona, che da esperto bibliofilo amava fare e riparare libri, rivela il suo “tema natale”. Illumina il mito delle origini, la sua leggenda privata, in un punto dove vita e morte appaiono congiunte. E’ un quadernetto con la copertina dai colori vivaci – avorio e rosso pompeiano. E’ rimasto a lungo inosservato eppure sotto gli occhi di tutti, sulla scrivania di Croce a Palazzo Filomarino, a Napoli; poi nel 1961 è stato inghiottito da un cassetto e lì è stato dimenticato.
Sembra l’edizione privata di un poemetto di Victor Hugo, “Le revenant”, il redivivo, ricopiato a mano dal padre del filosofo Pasquale Croce. Ma è molto molto di più. Contiene, in poche pagine, una emozionante composizione di documenti. Con il testo di Hugo sono rilegati una cartolina postale e due lettere scritte con l’inchiostro nero che vira al marron, mentre l’impronta della scrittura traspare sul rovescio della carta ingiallita. C’è anche una fotografia di Pasquale Croce, presumibilmente datata 1860.
A scoprire l’importanza del quadernetto e il valore che aveva per il suo proprietario, che lo tenne come una reliquia sul suo tavolo da lavoro per tutta la vita, è Emma Giammattei, italianista e critica letteraria, tra i più fini studiosi di Croce e dintorni, autrice di un’inchiesta filologica ora pubblicata da Hoepli. Ne “Il redivivo. Benedetto Croce e il quaderno segreto”, Giammattei riannoda i fili che dal misterioso librino conducono alla biografia e all’opera del filosofo.
Introdotta quarant’anni fa da Alda Croce, che fu la più stretta collaboratrice del padre, in uno degli archivi più ricchi d’Europa, Giammattei aveva intuito l’esistenza del quadernetto mai catalogato – e infine ritrovato dalla direttrice della Biblioteca Teresa Leo – da una nota di Fausto Nicolini, sodale e primo biografo di Benedetto Croce. Ma perché quel poemetto era così importante da indurre Pasquale Croce, che aveva poca familiarità con la poesia, a copiare la traduzione italiana di Isidoro Del Lungo? L’aveva trovata su una rivista allora popolare, Il Museo di Famiglia, pubblicata da Treves e ricevuta in abbonamento a Pescasseroli, nel freddissimo febbraio del 1866.
E perché Benedetto Croce rilegò la trascrizione con la cartolina postale in cui Del Lungo confermava di essere l’autore della traduzione e con due lettere? Una era stata scritta sempre da suo padre e annunciava la sua nascita a Silvio Spaventa, il cugino eroe del Risorgimento poi senatore e ministro del Regno d’Italia, che in seguito sarebbe diventato tutore di quel bambino appena nato. La seconda lettera era invece di Spaventa, era stata scritta nel 1862, quattro anni prima, e a Pasquale chiedeva notizie del parto imminente della giovane moglie Luisa Sipari, che in effetti quell’anno mise al mondo un altro figlio, fratello maggiore del filosofo.
Le risposte sottendono un piccolo romanzo gotico. La narrativa dell’Ottocento è affollata di vedove, orfani, figli illegittimi e bambini che muoiono. Il mondo girava così e la letteratura, non solo l’appendice, aveva effetti catartici su lettori abituati alla presenza della morte, con la quale intrattenevano dialoghi quotidiani. I piccoli morivano come mosche. Non succedeva solo tra i poveri, uccisi dal freddo e dalla miseria, succedeva anche nelle famiglie abbienti. Nelle case riscaldate dal debole tepore dei caminetti, senza antibiotici, una bronchite poteva facilmente portarsi via un bambino. E poiché a quel tempo una giovane donna partoriva quasi ogni anno, presto un nuovo nato prendeva il posto del piccolo scomparso in uno straziante avvicendarsi di disperazione e di gioia.
La pena nel cuore di una madre che ha appena perso un figlio e subito ne partorisce un altro, Victor Hugo, padre del romanticismo francese, l’ha raccontata in un poemetto, quel poemetto. Era successo anche in casa sua, sua moglie Adèle Foucher aveva visto andarsene il loro primogenito Léopold a soli tre mesi nel 1823 e l’anno dopo aveva avuto una bambina, che fu chiamata Léopoldine e che sarebbe poi morta tragicamente a soli diciannove anni. Sull’onda del dolore per la morte di Léopoldine, Hugo scrisse la raccolta di memorie autobiografiche in versi “Les contemplations”, dove appunto si trova “Le revenant”, un testo dal contenuto “perturbante”, scrive Emma Giammattei.
Ne “Le revenant” una madre inconsolabile per la morte di un figlio piccolo non riesce ad accogliere il suo nuovo nato, ad abbandonarsi alla gioia e a innamorarsene, perché pensa ancora all’altro, al bimbo che l’ha preceduto, lo immagina solo nel buio, e non vuole scambiarlo con un sostituto. Finché il bambino stesso pare rassicurarla e dirle che non si tratta di un altro, no, è proprio lui: il bimbo perduto è tornato dal mondo dei morti.
Anche i Croce allora avevano perso un bambino, era morto proprio l’anno prima, e al figlio nato il 25 febbraio 1866 dettero lo stesso nome: Benedetto come il nonno, che fu magistrato del Regno di Napoli. Nella leggenda famigliare, il filosofo era dunque come il redivivo, un figlio venuto a consolare, a riparare una ferita. Del fratellino scomparso, il primo Benedetto, la famiglia fece fare un ritratto. E’ un olio su tela di Federico Mazzotta, datato 1865, con un maschietto dall’espressione risoluta che indossa una vestina, come usava allora, e imbraccia un fucile giocattolo; è un piccolo cacciatore ai margini del bosco, con un cappellino di paglia con la piuma appoggiato sul sedile e, ai suoi piedi, una tromba per richiamare i cani.
Le carte analizzate da Emma Giammattei, messe insieme dal filosofo e rilegate solo per sé nel 1916, all’età di cinquant’anni con l’evidente scopo di documentare connessioni, forse provenivano dal vecchio studio di Pasquale Croce. O forse avevano un valore emotivo ancora più grande perché erano state recuperate a Ischia, sotto le macerie del terremoto del 1883 che aveva distrutto Casamicciola. La catastrofe che aveva ucciso i genitori di Croce e la sorella Maria. Da quelle macerie era stato estratto vivo anche lui, il diciassettenne Benedetto, ferito e traumatizzato. Un sopravvissuto che torna per la seconda volta e in seguito va a vivere a Roma, in casa di Silvio Spaventa, da allora diventato il suo secondo padre e anche lui presente nel quadernetto con una lettera.
Molti sono gli indizi temporali che rendono verosimile una ricerca sulla propria origine e identità fatta da Croce in quegli anni: nel 1915, l’anno precedente, aveva finito di scrivere il celebre “Contributo alla critica di me stesso”, in cui raccontava la tragedia di Casamicciola come uno spartiacque nella sua giovane vita. Qualcosa che l’aveva piegato, “rendendolo vecchio prima che giovane”. Gli anni romani in casa di Silvio Spaventa furono “dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino”. Da allora l’angoscia era diventata ricorrente e non l’avrebbe più lasciato anche se, con la maturità e grazie agli studi che avevano assorbito tutta la sua attenzione, “da selvatica e fiera” si era poi fatta “domestica e mite”.
Dopo la catastrofe, vi fu una sorta di seconda nascita, allora perché nel “Contributo” non si trova alcun cenno alla leggenda famigliare intorno alla sua origine e all’altro Benedetto, il fratellino morto? Forse era qualcosa di troppo intimo per un uomo che desiderava essere giudicato “tutto pensiero”, ipotizza Emma Giammattei. Eppure – osserva subito dopo – nel dialogo che intratteneva con sé stesso, Croce sapeva bene “che la partita dei sensi, delle passioni e della ragione, è una partita sempre aperta” e che il racconto interiore è per tutti in evoluzione costante. Probabilmente non pensava di rendere pubblico il quadernetto, un po’ come i suoi famosi “Taccuini di lavoro”, che in origine non erano destinati alla lettura di altri.
Il 1915, per continuare con le coincidenze temporali, fu anche l’anno in cui Croce raccolse e rielaborò largamente gli scritti confluiti in “Storie e leggende napoletane” poi pubblicati in volume nel 1919. Nel suo lavoro di erudito è esplicita la consapevolezza che “ogni storia ha un po’ della leggenda e ogni leggenda ha della storia”. Dunque è molto plausibile che considerasse la mitologia famigliare intorno alla sua nascita come parte della sua identità. In fondo era l’intellettuale – argomenta efficacemente l’autrice di questa inchiesta – che per sé aveva scelto come archetipo il mito di Nicola Pesce, il bambino che esplora il fondo del mare. Si pensava come “un palombaro letterario” e considerò quella leggenda quasi come un simbolo araldico, tanto da far murare l’effige dell’uomo-pesce sulla porta della sua casa. Benedetto Croce detestava la psicologia, ma era attento ai miti, alle fantasie e ai sogni. E soprattutto sapeva che “nella biografia di un individuo entrano come fatti reali anche le sue illusioni”, annota ancora Giammattei, citando “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: teoria e storia”.
E’ un fatto che per più di quarant’anni Croce volle conservare il mondo delle sue origini come qualcosa di segreto e di favoloso, e non tornò a Pescasseroli per mantenere intatta la magia dei racconti di sua madre. Quando infine si decise ad andare, nel 1910, confessò pubblicamente che – pur non avendo mai visto palazzo Sipari, la piazza, la chiesa, i ruderi del castello – li conosceva già. Li aveva visti “come in sogno”, li aveva immaginati da bambino ascoltando sua madre parlare di Pescasseroli “biancheggiante di neve, quasi divisa dal mondo” e con le famiglie raccolte intorno al camino ad ascoltare storie “di uomini forti e austeri, di pastori, di innumeri greggi (…), di soldati e di briganti e meglio ancora di cacce e di orsi”.
Così per tanto tempo, disse Croce in quel suo discorso del 1910 alla comunità di Pescasseroli, aveva avuto “ritegno a realizzare il mondo del sogno, a sostituire immagini precise a quelle ondeggianti che erano nel mio cuore ricche di tanto significato, giacché facevano tutt’uno con l’immagine di mia madre”.
In sintonia con gli studi sul rapporto tra biografia e storia di Gennaro Sasso, filosofo e massimo esperto della relazione Croce-Gentile, Emma Giammattei è andata in cerca dell’“io nascosto” di un grande del Novecento e del “movente esistenziale” del suo immenso lavoro, consegnandoci una ricerca che si può leggere come una storia avvincente e piena di sorprese.
Benedetto Croce conobbe anche come padre il dolore per la perdita di un figlio piccolo. Dal suo matrimonio con Adele Rossi nacquero quattro figlie e un solo figlio, Giulio, morto nell’aprile del 1917 a tredici mesi. Racconta Benedetta Craveri, nipote del filosofo e oggi presidente della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, di essersi stupita perché quel bambino non è sepolto nella cappella di famiglia. La tomba è poi stata rintracciata: Giulio è stato tumulato con Pasquale Croce, riposa tra le braccia del nonno, sotto la stessa lapide. Come se Benedetto avesse voluto restituire a suo padre il bambino che aveva perso, affidandogli il suo.