“L’arte della gioia” e l’anima nuda di Goliarda Sapienza

Che bella la serie tv firmata da Valeria Golino e tratta dal romanzo "politicamente scorretto" che fu così difficile pubblicare

Dalla serie tv "L'arte della Gioia" regia di Valeria Golino

Di qua o di là dalla macchina da presa, da qualunque parte decida di stare, Valeria Golino è una grande artista.

Ho visto “L’arte della gioia”, la serie prodotta da Sky tratta dall’omonimo romanzo di Goliarda Sapienza e mi è molto piaciuta. Lo dico allegramente buona e ultima.  Sarebbe stato così banale gattopardeggiare, visconteggiare, trovare scorciatoie di bella calligrafia cinematografica  e lei non l’ha fatto. Valeria Golino si è inventata un modo personale di rileggere un gran feuilleton, certamente il più importante ritorno alla forma del romanzo ottocentesco dopo quello operato da Elsa Morante, compiuto saccheggiando e rimodellando letterariamente, in modo trasgressivo, i cliché dell’appendice.

Nel caso di Goliarda Sapienza sappiamo che la sua fu un’operazione di avanguardia dal modo davvero spiazzante, che è insieme innocente e cinico, di rivisitare temi propri della narrativa di genere di fine Ottocento: conventi, orfanelle, mostri nascosti in soffitta, figli illegittimi, nozze celebrate nel cuore della notte, principesse capricciose assediate dal tedio, giovani arrampicatrici pronte a tutto, servitù ladra, gabelloti sensualissimi …

Valeria Golino al Festival di Cannes nel 2016
Valeria Golino al Festival di Cannes nel 2016
Goliarda Sapienza (1924-1996)
Goliarda Sapienza (1924-1996)

Lo fa usando le carte da gioco consumate del vecchio mazzo, che abbiamo già visto combinate in mille modi, senza spartire nettamente bene e male, verità  e menzogna. I personaggi sono ambivalenti, a volte commoventi nella loro ansia di vita, a volte un po’ ridicoli in quel loro recitare il romanzesco per convenzione. Del resto se non ci fossero regole del gioco, che carte sarebbero?

Valeria Golino e le sue strepitose attrici – tra tutte ricordo Valeria Bruni Tedeschi (la principessa), Jasmine Trinca (la madre superiora) e poi la rivelazione, Tecla Insolia nei panni di Modesta, la protagonista – hanno reso magnificamente la meravigliosa ambiguità del romanzo.

Una doppiezza che si può certo definire amorale: la protagonista è giovane, ingenua, selvaggia e assetata di vita, oppure  è malvagia, avida e perversa? Il fatto è che qui siamo in una dimensione che precede il giudizio etico: forse siamo in un sogno o in una fantasia scaturita dai desideri di riscatto di una bambina povera, abusata e disposta a tutto pur di sopravvivere e rubare la sua parte di gioia. Non per nulla è leggiadramente ribattezzata, dalla principessa Brandiforti, Modì che – alla francese – è Maudit, maledetta.  Fateci caso, qualunque scempio commetta Modesta, chi legge o guarda, col cuore sta sempre dalla sua parte.

Valeria Golino e i suoi bravissimi sceneggiatori ( Luca Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella, Stefano Sardo) hanno colto perfettamente l’ambiguità dell’opera di Goliarda Sapienza. “L’arte della gioia” è una storia scellerata,  potrebbe essere una parodia di Jane Eyre, dove la rigorosa istitutrice-governante creata da Charlotte Bronte diventa un’abile ruffiana, capace di dissimulare e mercanteggiare la sua scalata sociale, ricorrendo anche al crimine e usando il sesso senza  problemi, alla maniera di Moll Flanders , l’eroina settecentesca di Daniel Defoe.

Quest’opera straordinaria e potente di Goliarda Sapienza ha avuto una storia editoriale tormentata e la ragione sta probabilmente proprio qui. “L’arte della gioia”, finito di scrivere dall’autrice nel 1976, è un lavoro di oltre 600 pagine, dunque un grande investimento per qualunque editore: arrivò sui tavoli degli editor nel bel mezzo degli anni di piombo, in un clima di violenza,  di espropri proletari, di giustificazioni  ideologiche  all’affermazione della giustizia sociale con ogni mezzo, lecito e illecito: equivocarne il senso, in quel contesto, sarebbe stato fin troppo facile.

“L’arte della gioia” fu vittima del politicamente corretto ante-litteram? È un’ipotesi ragionevole, tanto più se si considera la vicenda del furto di gioielli che successivamente coinvolse l’autrice, poi condannata e finita per qualche mese in carcere. Accolto e acclamato all’estero (in Germania e in Francia), il romanzo è arrivato anche in Italia, da Einaudi e finalmente in edizione integrale, nel 2008.

Consiglio vivamente  di leggere il post di Dalia Oggero che ha raccontato l’emozione provata quando  Angelo Pellegrino, il marito di Sapienza che era scomparsa nel 1996, spalancò davanti ai suoi occhi il baule che custodiva le carte scritte a mano di Goliarda. E consiglio ancora di più di guardare su You Tube l’intervista-ritratto firmata da Anna Amendola e Virginia Onorato per “Soggetto donna” nel 1994. L’innocenza, la freschezza, la nudità di Goliarda, che parla liberamente di sé davanti all’obiettivo, raccontando anche fatti molti intimi con la semplicità di una bambina, mi ha fatto pensare alle parole di Anna Achmatova: “Noi, poeti, siamo nudi, si vede tutto, perciò dobbiamo preoccuparci di sembrare decenti”.

Goliarda non se ne preoccupava, era una creatura speciale, unica, figlia di una storia eccezionale. Era nata nel 1924 da Maria Giudice –  “La leonessa del socialismo” raccontata da Mariarosa Cutrufelli nella biografia pubblicata da Perrone nel 2022 . Suo padre era l’avvocato catanese Giuseppe Sapienza, che fu eletto all’Assemblea Costituente e che, sotto l’occupazione nazista di Roma, era stato tra gli organizzatori dell’evasione di Sandro Pertini  dal carcere di Regina Coeli. Goliarda Sapienza ha fatto l’attrice, è stata per molti anni la compagna del regista Citto Maselli, ha insegnato al Centro sperimentale di cinematografia, è morta povera. Si era ritirata a Gaeta, dove aveva preso casa in una viuzza del centro storico e dove la gente se la ricorda: passava le mattinate nei caffè, seduta a scrivere.

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