Wilfred Bion, uno dei più grandi psicoanalisti del secolo scorso, partecipò alla prima guerra mondiale da giovanissimo sottotenente e fu decorato al valor militare. Aveva solo diciannove anni, era nato in India nel 1897, e comandava una squadra di carristi. Sul fronte francese fece l’esperienza del topo in trappola, sperimentò il caos e l’assurdità di ordini che esponevano i soldati a morte certa, vide i corpi di altri ragazzi ridotti in poltiglia. Riuscì a sfangarla ma sognò la guerra e fu aggredito da terrori senza nome per il resto della vita. Nella sua autobiografia scrisse: “Sono morto l’8 agosto 1918”. Certo, voleva dire che una parte di lui era morta, che il ragazzo di prima – quello che aveva lasciato l’India per andare al college in Gran Bretagna – non c’era più e che la sua mente era letteralmente andata in frantumi. Navigando dentro quella deflagrazione, nell’agglomerato di schegge che aveva prodotto, avrebbe dato un apporto formidabile allo studio delle conseguenze dei traumi catastrofici.
Un trauma di quel tipo non è un ordigno qualsiasi, non distrugge solo quello che ha intorno al momento dell’esplosione. È una specie di bomba H e lascia tracce radioattive a contaminare l’ambiente penetrando anche i corpi e le menti di altri esseri umani. Adesso sappiamo che una generazione non basta per riassorbire i traumi prodotti da eventi come la guerra o la deportazione in un campo di sterminio, oppure le conseguenze di un attacco terroristico o del naufragio di un barcone governato da aguzzini pagati per portarti in salvo, o le lacerazioni psichiche di esperienze come la riduzione in schiavitù, la violazione e l’annientamento vissuti durante la tortura o lo stupro.
Mi capita di pensarci mentre ascolto le notizie dal fronte ucraino. Dopo più di cento giorni di guerra sappiamo che i russi colpiscono con tanta determinazione la popolazione civile per sloggiarla da dove si trova e mantenere più facilmente il controllo dei territori conquistati, dove la popolazione è ostile. Ma per costringere le persone ad andarsene abbandonando tutto bisogna essere molto crudeli: radere al suolo, saccheggiare, terrorizzare. Poche ore bastano a uccidere e a distruggere, ci vorranno anni per ricostruire. Quanto ai danni invisibili, le ferite profonde dei sopravvissuti, ne riparliamo tra due o tre generazioni.
Lo studio della “radioattività” dei traumi si è sviluppato soprattutto in Israele, dove
l’impatto della Shoah sulle generazioni successive a quelle dei reduci dai lager è stato osservato con indispensabile cura. La definizione di “radioattività del trauma” si deve infatti a Yolanda Gampel, psicoanalista e docente alla Scuola di Scienze psicologiche dell’Università di Tel Aviv. Come una pioggia radioattiva, gli effetti psichici di una catastrofe si diffondono nella vita di figli e nipoti, manifestandosi in forma di sintomi fisici ed emotivi, sintetizza Galit Atlas nel suo libro“L’eredità emotiva”, appena pubblicato in Italia da Raffaello Cortina.
La dottoressa Atlas proviene da una famiglia sefardita emigrata in Israele dall’Iran e dalla Siria negli anni Cinquanta, ma vive negli Stati Uniti dove insegna alla New York University: attraverso la sua storia personale e quella dei suoi pazienti, ricostruisce come portiamo inconsapevolmente dentro di noi ricordi, sentimenti e traumi ereditati dalle generazioni precedenti. Il suo lavoro, fiorito nella stanza di analisi, trova riscontro anche negli studi di epigenetica sull’”impronta chimica” che le esperienze traumatiche possono lasciare nei geni, trasmettendosi a figli e nipoti. Ovviamente non si tratta di mutazioni genetiche ma di tracce chimiche, dovute a intensi stimoli ambientali. E qui si riferisce di corpose ricerche, condotte in Israele, sui profili ormonali dei discendenti dei sopravvissuti alla Shoah, più esposti di altri all’ansia, a disturbi da stress post-traumatico o a manifestare sintomi legati a eventi sconvolgenti non vissuti in prima persona.
I traumi familiari invadono la psiche di seconde e terze generazioni. “Le persone che amiamo”, scrive Galit Atlas, “vivono dentro di noi; proviamo il loro dolore emotivo, sogniamo i loro ricordi, conosciamo anche ciò che non ci è stato esplicitamente comunicato e tutto questo plasma la nostra vita in modi che non sempre comprendiamo”. Siamo come case abitate da “fantasmi”, “gli spettri del non-detto e dell’indicibile”. In questo libro, Atlas non esplora soltanto i fantasmi della guerra e dello sterminio, ma anche quelli dei segreti di famiglia: l’infedeltà, l’abuso sessuale, il suicidio, l’incesto, l’omofobia, il lutto irrimediabile per la perdita di un figlio piccolo, o la nascita di un bambino indesiderato che si rappresenta nella sua vita adulta come inspiegabile desiderio di morte. Le verità indicibili che precedono la nostra nascita “sfuggono alla nostra consapevolezza” ma condizionano le nostre vite a nostra insaputa. Spesso si tratta di vicende che nascondiamo a noi stessi per proteggerci distorcendo la realtà, seppellendo il trauma che continua ad agire nelle vite dei discendenti.
I segreti della mente non sono solo nostri, sono anche quelli dei nostri genitori e dei nonni. Talvolta siamo nostro malgrado trascinati sulla scena di un disastro che non fa parte della nostra esperienza ma che lavora silenziosamente contro di noi, vanifica i nostri desideri di emancipazione dal passato e gli obiettivi consci che diamo alla nostra esistenza. Qualcosa che “ha il potere di controllare e gestire le nostre vite, nello stesso modo in cui le correnti sotto la superficie dell’oceano ne rappresentano le forze più potenti”. Ma di che cosa parliamo esattamente e come possiamo aver assorbito “le radiazioni” di gravi sofferenze altrui?
Galit Atlas descrive l’eredità emotiva attraverso le storie dei suoi pazienti. Per esempio quella di Rachel, discendente di ebrei ungheresi emigrati in America dopo la Shoah, che dall’età di sei anni dorme con un coltello sotto il cuscino e ha un sogno ricorrente: fugge con una neonata tra le braccia senza trovare un posto in cui nascondersi. Rachel soffre di panico notturno. Quando resta incinta, comincia a progettare con il marito di trasferirsi in Israele, vuole un posto sicuro dove far nascere la bambina che chiamerà Ruth, mandando suo nonno su tutte le furie. I bambini, sostiene il nonno che è stato in campo di concentramento, non dovrebbero portare nomi che evocano la morte. Ma non vuol dire di più e Rachel capirà soltanto in Israele, dove una vecchia amica di famiglia impallidisce ascoltando il nome della bambina. Rachel non lo sapeva ma in famiglia c’era stata un’altra Ruth, uccisa da neonata poche ore dopo il suo arrivo ad Auschwitz, era la prima figlia del nonno. Era la bambina che Rachel sognava da quando aveva sei anni, anche se nessuno le aveva mai raccontato quella storia.
Come ci arriva il non-detto che tornerà a visitarci? “Sin dalla più tenera età, impariamo a leggere i segnali dei nostri genitori; impariamo ad aggirare le loro ferite, cercando di non menzionare, tantomeno sfiorare, quello che non dev’essere ricordato”, scrive Galit Atlas. Però comunichiamo con loro anche senza parole e un “lutto grezzo”, un’angoscia intollerabile o un ricordo traumatico può ripresentarsi nella mente di un bambino come se fosse suo. Una trasmigrazione confusiva.
Uno dei segreti familiari più difficili da indagare è l’abuso sessuale. E qui troviamo una storia significativamente intitolata “La confusione delle lingue”. I linguaggi di cui si parla sono due: quello dei bambini, la tenerezza, e quello degli abusanti, la passione. “Gli abusanti non si limitano a minacciare e a terrorizzare i bambini: spesso offrono affetto, promettono sicurezza, fanno sì che il bambino si senta speciale”.
I lupi gentili sono i più pericolosi perché i piccoli non riescono a capire e finiscono per pensare che i cattivi sono loro. Come ben racconta “Capuccetto rosso” nella versione di Perrault, dove la bambina crede di parlare con la nonna e non si accorge che è un lupo. Rivisitando la favola, Atlas racconta di Lara, una ragazzina che arriva nel suo studio come “la paziente designata”. Tocca a lei l’ingrato ruolo di esprimere i sintomi del malessere di una famiglia in cui la nonna accusa il fratellastro di essere l’abusante. E un abuso c’è stato, contamina con la sua nebbia fatta di innocenza e perversione la storia di famiglia. Ma quale bambina l’ha realmente subito: la madre, la nonna o la nipote? Il quaderno di analisi di Galit Atlas è come una raccolta di racconti gialli ed è meglio non rivelare altri esiti per non togliere al lettore il piacere di seguire l’indagine.
La memoria è fluida, annota Atlas citando Freud. Nel corso della vita lo stesso ricordo riappare più volte in forme diverse. Quando è troppo doloroso per essere sopportato, viene separato dal suo significato emotivo. Un lutto non riconosciuto come tale vaga come uno spettro negli armadi di famiglia. E qui si legge la vicenda di un paziente gay, in apparenza ben accolto dalla sua famiglia, che dice di sentirsi “maledetto”. Leonardo va in terapia perché non riesce ad accettare la fine di un amore e collega questo piccolo lutto – la rottura con il suo compagno – a un grave trascorso di famiglia: il suicidio del nonno, avvenuto prima che lui nascesse, coperto di indicibile vergogna e dei classici sensi di colpa per non aver potuto fare niente per salvarlo. Nella famiglia di chi si uccide si lotta “contro l’oscurità dell’anima, contro i segreti sepolti nel passato e spesso contro i propri desideri suicidari”. Ma che cosa c’entra la fine di un amore tra ragazzi con la morte violenta del nonno di uno dei due? Perché Leonardo si identifica col nonno e fantastica che si sia tolto la vita perché era innamorato di un altro uomo? Ci sono vite, amori, razze, orientamenti e identità sessuali, commenta Atlas, che non sono riconosciuti come vita a tutti effetti. E dunque non possono essere davvero pianti.
Estremamente confusivo è anche il linguaggio della violenza. I bambini picchiati, maltrattati dai genitori, pensano di aver scatenata loro quella reazione, e dunque di essere colpevoli. Però provano anche molta rabbia, confondendo la loro aggressività con quella dell’aggressore: lo amano perché hanno bisogno di affetto e condiscendenza e insieme lo odiano perché lo subiscono. Alla fine non sanno più se la violenza è fuori o dentro di loro.
E’ il caso di Guy che vorrebbe uccidere suo padre e insieme si identifica con lui, per non essere soltanto vittima e diventare anche soggetto del far male. Anche per questo la violenza non riconosciuta in genere viene inesorabilmente riprodotta; e l’ultima parte di questo libro è dedicata a come se ne esce, a come si può rompere il ciclo del trauma. Riconoscerlo, verbalizzarlo e accettarlo nella sua dolorosa realtà, e nei limiti che detta alle nostre vite, è l’unico modo per proteggere i propri figli ed evitare di scaricarlo sulle loro spalle.
Nessuno sceglie dove e da chi nascere, la nostra eredità emotiva in fondo è una fatalità. Ci è toccata in sorte. E “l’inconscio umano ci riporta in continuazione nel luogo originario in cui le cose sono andate male con il desiderio di rifare tutto daccapo, di riparare il danno e risanare quelli che sono stati danneggiati e feriti. Ci identifichiamo con le generazioni precedenti: con quelli che sono stati offesi, che sono stati umiliati, che sono morti. Nella nostra fantasia, curare loro significa anche curare noi stessi”. Però si tratta dell’illusione generata da storie dimenticate e non raccontate che premono per tornare sperando in un altro esito. Il passato è passato e non si può modificare, e per aprire la porta a un futuro diverso bisogna separarsene, accettando gli esiti dolorosi dell’antica catastrofe. È in questo corridoio stretto che il fato, ciò che abbiamo ereditato e che non possiamo più cambiare, si distingue finalmente dal destino che possiamo costruirci da soli.