E’ il 24 maggio 1942 e c’è ancora la guerra quando Maria Bottero, domestica, scrive da Dronero provincia di Cuneo alla Madamin torinese presso la quale ha fatto la domestica: «Stim.ma Signora. Sono un po’ in pensiero per Lei e per la Sua salute. Da Pasqua non ho più Sue notizie. Forse in questi ultimi giorni di scuola sarà più occupata del solito e anche più stanca, ma si faccia coraggio che presto avrà le vacanze …». Poi aggiunge qualcosa anche sulla sua stanchezza e racconta che è stata ad aiutare uno zio nei lavori del fieno. Con sublime ironia commenta:« Così faccio la cura del sole (senza spesa)».
Quest’estate Einaudi ha mandato in libreria, a vent’anni dalla morte dell’autrice, una nuova edizione di Maria, il romanzo d’esordio di Lalla Romano, con le lettere finora inedite della vera Maria, che davvero fu la domestica dell’autrice. Piegare la vita vissuta per farne un’invenzione, una costruzione estetica distillata da una scrittura «rastremata e scontrosa» – come la definisce Benedetta Centovalli nella sua bella introduzione a questa edizione – è infatti la cifra di Lalla Romano, che fu anche pittrice e di Maria dipinse il ritratto.
Mi ha fatto un certo effetto leggere questa storia e le lettere di Maria con il sottofondo di sghignazzi sulle esternazioni (poi ritirate con scuse) della senatrice Cirinnà, piantata in asso da una cameriera descritta come nullafacente e ingrata. Una storiaccia profana si insinuava tra le righe rendendo ancora più metafisico il «rapporto quasi mistico», tra «serva e padrona», che si racconta qui. È stato Eugenio Montale a parlarne in questa chiave, recensendo il libro che aveva trovato «bellissimo», di una allora sconosciuta professoressa. L’autrice si riconobbe in quella classificazione e l’attribuì al mistero del legame affettivo che nel romanzo corre tra le due donne, fondato «su un’affinità nonostante le differenze di nascita, di ambiente, di cultura».
Durante la guerra, su richiesta di Cesare Pavese, Lalla Romano aveva tradotto Un cuore semplice di Flaubert e «aveva avuto una specie di folgorazione riguardo al senso della scrittura narrativa»: «l’apprendimento esatto di come si compie il passaggio dalla realtà, dal vissuto, alla letteratura», scrive Benedetta Centovalli . Poi però se ne era andata per la sua strada.
Maria infatti non è come Félicité, la domestica di Flaubert arresa alla crudeltà del mondo, che venera un pappagallo impagliato. Maria viene da una civiltà in estinzione, quella contadina e questo fa di lei l’ultima dei Moicani, conferendole «un’aria speciale, quasi un ordine invisibile nel disordine del mondo» .
Qualcosa che in definitiva la rende simile «al bambino», così Lalla Romano chiama suo figlio senza mai farne il nome. Con lui la domestica condivide «il candore illimitato dell’infanzia: una totale, indifesa innocenza». E per questo loro due – il bambino e Maria – sono una coppia, si intendono profondamente e insieme non si annoiano mai: parlano, vanno a vedere i treni e passeggiano mano nella mano «come due innamorati». Tra loro c’è qualcosa di sacro.
La domestica dovrà lasciare il bambino per accudire «il suo sangue», uno zio anziano: non sposata, senza figli, Maria è sottomessa a un codice non scritto, rassegnata a servire, occupa il posto che le è stato assegnato. Di quel codice è un’antica aristocratica vestale devota alle regole. Un po’ come il maggiordomo di Ishiguro in Quel che resta del giorno, che è molto più snob del suo padrone e, sotto la livrea, nasconde il carattere di un nobile samurai.
Madamin e il bambino sono gelosi del Barba, lo zio che si porta via Maria esigendola per sé. E a me non è dato capire come sia possibile che Madamin, con l’eleganza e la distanza del suo occhio spietato, non ne riconosca un filo in se stessa, mentre guarda Maria e il bambino e li vede innamorati. In lei non c’è traccia di ambiguità, quella cosa che quasi tutte le madri conoscono perché hanno bisogno delle tate e vogliono i bambini felici con loro, ma poi covano anche l’ansia di essere meno amate.