La rivista si chiamava Foemina, settimanale della donna elegante. L’anno era il 1946 e si era nel pieno di un’euforia editoriale che ormai possiamo solo invidiare: i giornali nascevano come funghi per un pubblico vorace di notizie. E in quella redazione c’era un formidabile quintetto. Paola Masino, alta ed eccentrica, compagna di Massimo Bontempelli con il quale era scappata da ragazza benché lui avesse trent’anni di più; aveva subito la censura fascista per un romanzo dal titolo impossibile, Nascita e morte della massaia, in anticipo di qualche lustro rispetto alla mistica della femminilità di Betty Friedan. Poi c’era Alba De Céspedes, già famosa e baciata dal successo, che aveva fatto la Resistenza e aveva ascendenze cubane, presto avrebbe pubblicato un audace memoir-romanzo-arringa intitolato Dalla parte di lei. C’era, ancora, Titina Rota, nata in una famiglia di musicisti, grande costumista della Scala, ammirata da Prampolini e da D’Annunzio, disegnatrice e direttrice di Grazia negli anni della guerra. Va aggiunta Sibilla Aleramo, la decana, allora già settantenne e autrice di Una donna, pubblicato all’inizio del secolo con grande scandalo: il romanzo autobiografico in cui aveva raccontato la sua separazione dal marito e dal figlio, che le fu tolto come ad Anna Karenina.
Infine, per completare la foto di gruppo, ecco la direttrice, quella di cui sappiamo meno: Marise Ferro, scrittrice di cultura italo-francese, nata a Ventimiglia nel 1905, che collaborava con l’Omnibus di Longanesi e con il Corriere della sera, aveva tradotto Simenon, Merimée, Mauriac e stava lavorando su Proust, ma il suo preferito sarebbe sempre stato Balzac. Anche Marise era incorsa nella censura fascista con uno spregiudicato romanzo di formazione pubblicato da Mondadori, Barbara, e quell’anno stava dando alle stampe un romanzo-pamphlet , La guerra è stupida. Era già legata a Carlo Bo, gran letterato e dall’anno successivo rettore dell’Università di Urbino, col quale sarebbe rimasta per tutta la vita; ma lo sposò solo nel 1963, dopo l’annullamento del suo precedente matrimonio con una star del giornalismo e delle lettere, Guido Piovene. Marise Ferro era stata sua moglie dal 1934 al ‘38, lo aveva seguito a Londra dove era stato corrispondente del Corriere della sera, mentre lei scriveva le sue “lettere londinesi” per L’Ambrosiano , ma poi l’aveva lasciato. Dissapori politici, una frattura sulla guerra di Spagna, Piovene era ancora fascista, lei assolutamente no. Ma c’erano anche ragioni esistenziali: Guido aveva esercitato su di lei un grande fascino intellettuale, lei era ancora giovane e inconsapevole di sé, l’intesa coniugale tra loro non aveva funzionato. E, come le altre signore in quella foto di gruppo, Marise Ferro era una donna libera, diretta, incapace di tenere in piedi un’unione impossibile.
Francesca Sensini, docente di italianistica a Nizza, a l’Université Côte d’Azur, e curatrice delle nuove edizioni di libri e scritti di Marise Ferro, mi racconta che Eugenio Montale, nelle Lettere a Clizia, scrive di aver conosciuto a Londra Mrs. Piovene e di essere rimasto stupefatto per averla sentita parlare schiettamente, nei salotti e alle cene ufficiali (siamo più o meno a metà degli anni Trenta), di sesso e orgasmo femminile. Nella maturità lei avrebbe poi scritto un trattatello di costume in cui diceva che donne e uomini sono vittime di giochi di ruoli che rendono le ragazze esseri “futili”, con poco cervello e “poca sensualità, ma cuore, soprattutto cuore. I primi anni del secolo rigurgitano di donne mal maritate. Povere ragazze ignare, che per lo più cadevano nelle mani di un uomo che conosceva bene l’amore fisico, ma che, abituato al culto della vergine, della donna casta, trattava la moglie, anche nel cosiddetto ’talamo’, con riservatezza. [. . . ] Le malattie nervose delle donne, i complessi, la frigidità, sono nati dalle lunghe insoddisfazioni sessuali e sentimentali create da anni di conformismo e di prigionia fra le mura domestiche”.
Dunque, nel 1946, quel gruppo di scrittrici pensava di fare un giornale illustrato che guardasse con occhi nuovi alla moda, al costume, al bon ton e che – nel spirito pedagogico del dopoguerra – emancipasse le lettrici dal retaggio del sogno d’amore, coltivandone l’intelligenza: l’anticonformismo era la nuova cifra della donna chic. Di cultura laica e liberale, Foemina era destinato alle donne della nuova borghesia in ascesa. A differenza di Noi donne, il dirimpettaio settimanale dell’Udi, sostenuto da comunisti e socialisti, che promuoveva l’emancipazione femminile presso un pubblico decisamente popolare e con la collaborazione di scrittrici come Fausta Cialente, Anna Banti, Anna Maria Ortese.
In realtà, Paola Masino e Alba De Céspedes scrissero per entrambe le testate. Del resto Foemina, ideata con Salvato Cappelli, direttore di Omnibus, durò poco, neanche due anni. Forse la rivista era troppo elitaria e poi i giornali nascevano come funghi ma il mercato ne faceva strage. Di Foemina, resta un curioso ritratto di redazione firmato da Paola Masino (e ripescato da Valeria Babini nel suo Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, La Tartaruga 2018). Alba De Cespedés vi appare bella e bionda, descritta come “una donna elegante che si muove come se fosse in tuta: ricca, lavora come se fosse poverissima”. Sibilla Aleramo, la più bella scrittrice italiana mai nata, è invece poverissima ma si comporta come se fosse ricca. Titina Rota, la disegnatrice déco, è una donna-paralume come le figure che disegna. Marise Ferro, infine, tutte le mattine si toglie l’anima dal petto per metterla nella borsetta con la tessera tranviaria. Perché “a lei, l’anima piace prenderla e usarla a suo piacimento piuttosto che esserne usata”.
Eccola qui, dunque, descritta da un’amica che le fu davvero molto cara: Marise Ferro era un’antiromantica e avrebbe voluto educare le donne, come aveva fatto con se stessa, all’illuminismo. “Naturalmente parliamo di un illuminismo metastorico – mi dice Francesca Sensini – per lei l’intelligenza era l’antidoto per decostruire le illusioni e uscire dalla sofferenza. Considerava le donne, per educazione, troppo romantiche nel senso deteriore. Troppo espose alle illusioni veicolate da tanta letteratura anche alta. La razionalità illuminista è quella che vuole spazzare via le superstizioni, le credenze che ancorano al passato e rendono schiavi. Ecco, Ferro riteneva che solo un bel bagno di ragione avrebbe aiutato le donne a capire la trappola nelle quale erano state rinchiuse. La sua visione del femminile era severa e mai tenera”.
Con le nuove edizioni dei libri di Masino e De Céspedes – ne ha scritto su queste pagine Sandra Petrignani – ora tornano anche le opere di Marise Ferro. Curata da Francesca Sensini, è uscita l’antologia di racconti biografici – dodici figure femminile vissute tra il 1777 e il 1883 – intitolata Le romantiche e pubblicata da Succedeoggi Libri. Gammarò ha ripubblicato lo scorso anno La guerra è stupida. E, con Federica Lorenzi, Sensini ha curato anche una raccolta di articoli: Una donna moderna del secolo scorso. Marise Ferro giornalista, uscito da Aracne nel 2019. Ora le piacerebbe riproporre La violenza, romanzo del 1967 che anticipa il tema della botte domestiche. Le romantiche è del 1958 ed è una sorta di prototipo di un genere adesso molto fortunato: cammei di figure femminili ingiustamente dimenticate, dotate di talenti da riscoprire in chiave nuova o da celebrare perché innovative, irregolari, trasgressive.
Marise Ferro era molto interessata alle figure marginali, anticonvenzionali, dissidenti. Le romantiche è però un prototipo particolare. Come tutto quel gruppo di scrittrici, l’autrice pensava che per una donna il “mestiere di penna è duro” e considerava “ammonitore, almeno per la vanità, constatare che il tempo, salvo rare eccezioni, annulla quasi sempre il suo lavoro”. Ma era anche un’intellettuale che aveva orrore per le narrazioni consolatorie, “paura del falso” e che detestava la “retorica che è in ognuno di noi”. Dunque il suo sguardo rimane sempre lucido e non assume mai toni rivendicativi o apologetici. Le sue romantiche sono soprattutto francesi e – se si escludono George Sand ed Emily Brönte – davvero sono rimaste sepolte sotto la polvere del tempo. Come Marie d’Agoult, che pubblicò nel 1847 il Saggio sulla libertà considerata come principio e fine dell’attività umana; come la grande attrice Marie Dorval o la giornalista Delphine de Girardin o Louise Colet, poeta, romanziera, drammaturga che rifiutò testardamente di nascondersi, come si usava allora, dietro uno pseudonimo maschile. In comune, oltre ad essere vissute nel secolo che esaltava l’irrazionalità, il sentimento, il potere conoscitivo dei sogni, le romantiche hanno il tratto che molto interessava Marise: la capacità di salvarsi usando la testa per uscire da una condizione di inferiorità sociale e culturale.
Le “donne di testa” raramente sono amate. Questa postura e, come scrive lei, “la paura di intrupparsi” forse hanno finito per isolare Marise Ferro: è questa una delle ragioni per cui sappiamo poco di lei? “Io credo, semmai, che si sia auto-isolata”, risponde Francesca Sensini. “Era genuinamente elitaria e non lo nascondeva. I nipoti ricordano una donna non facile, senza peli sulla lingua, che diceva quello che pensava senza preoccuparsi di urtare la sensibilità dell’interlocutore. Aveva un certo carattere e lo rivendicava. Poi nelle lettere a Paola Masino, per esempio, che sono davvero belle, si sente il calore di un’amicizia sincera e una grande ammirazione, si vedono l’affetto e la sua capacità di lasciarsi andare … L’essere stata compagna e poi moglie di Carlo Bo non dev’essere stato facile: la metteva in una posizione un po’ particolare rispetto al mondo culturale del tempo. Voleva evitare che si pensasse: pubblica o vince i premi perché è la moglie di … Quindi mantenne una certa distanza, una posizione di retrovia, proprio per evitare situazioni spiacevoli in un ambiente marcato da pregiudizi”.
Un altro paradosso è che è stata femminista, ma il femminismo non le piaceva. “Quello che mi interessa in lei”, prosegue Sensini “ è proprio la sua doppia anima: non si sentirà mai vicina al movimento femminista protestatario per tante ragioni – il suo milieu, la sua mentalità, la diffidenza verso l’intruppamento politico-ideologico – ma è sempre stata molto attenta alla società e ha anticipato l’analisi dei ruoli sessuali mettendo l’accento sull’amore, l’affettività, il sesso; e sull’autocoscienza come strumento per arrivare alle radici dell’umano. Per lei i progressi nella Polis , la possibilità di lavorare e guadagnare denaro, l’inserimento nelle professioni non cambiano la condizione femminile se non muta l’idea di sé. La parità è una falsa soluzione: quello che le donne rivelano nell’intimità attraverso i loro desideri dice che molto poco è cambiato e che le ragazze sono prigioniere della stessa trappola in cui sono state rinchiuse le loro madri. La sua attenzione era puntata sul’immutabilità del privato e questo certamente anticipava il femminismo”.
Marise Ferro è morta esattamente trent’anni fa. Nel 1970 aveva pubblicato da Rizzoli il trattatello di storia del costume intitolato La donna dal sesso debole all’unisex, un excursus lungo il secolo fino agli anni Sessanta: lì polemizzava con l’ultimo feticcio dell’uguaglianza, la moda che confonde i generi, genderless si direbbe oggi. Oggi unisex è una parola innocente, jeans e t-shirt li portiamo tutti. Ma allora non era così: “Visti di spalle chi è la donna non si sa”, cantava Celentano nel 1967. E Marise Ferro considerò lo stile unisex come una forma di mascheramento in abiti maschili che nasconde una negazione del femminile, il suo depotenziamento. Una nuova illusione egualitaria, che non può modificare il corpo né il ruolo di moglie e madre che le donne non solo svolgono, ma desiderano. Una consapevolezza della specificità femminile molto forte; anche se lei – per sé – aveva deciso di non avere figli, sapeva che decostruire i ruoli sessuali e confonderli sono due cose molto diverse. “Oggi in fondo si può dire – commenta Francesca Sensini – che è stata una pensatrice della differenza ante-litteram”.