Se la madre è Napoli

Una città iper femminile, amata e odiata, nei romanzi di Ermanno Rea, l'autore di "Nostalgia", da cui Mario Martone ha tratto il film in concorso al Festival di Cannes 2022

Una scena del film di Martone
"Nostalgia" di Mario Martone, il bagno della madre

 

Con Napoli Ermanno Rea intratteneva un rapporto del tipo t’odio e t’amo e né con te né senza di te vivere posso. Per scrivere “Nostalgia”, il romanzo pubblicato postumo da cui Mario Martone ha tratto il film in concorso Cannes e che andrà nelle sale dal 25 maggio prossimo, Rea era tornato in città. Era andato ad alloggiare al Monacone, con le finestre che affacciano su Santa Maria della Sanità e con vista su un paesaggio urbano surrealista. Perché le arcate del gigantesco ponte, costruito nell’Ottocento per condurre le carrozze alla Reggia di Capodimonte, sorvolano i vicoli e il ventre della città abitata dalla plebe, poggiando gli enormi piedi di tufo tra le case, nei cortili, e una campata giusto dentro al chiostro ovale della basilica barocca.

Ermanno Rea
Ermanno Rea 1927-2016

Nel cuore della Sanità, dove si trova la Valle dei morti con i suoi cimiteri, con le catacombe e gli ipogei, dove le serpentine dei vicoli salgono su per la collina e dove si combatte l’eterna guerra del bene che resiste al crimine, Ermanno Rea lavorava da cronista fuoriclasse. Ascoltava il respiro della strada, il lessico e la parlata della gente, cercava un’immagine rovesciata del mondo, costruiva i suoi romanzi con un lavoro di preparazione  meticoloso. È lui stesso a definire “Nostalgia” come una cronaca del ritorno di Felice Lasco: lo si legge nel prologo dal quale apprendiamo che il narratore è un medico dell’ospedale San Gennaro dei Poveri, uno che conosce le piaghe del corpo e quelle dell’anima, eletto dal protagonista a suo confidente.

Dunque “Nostalgia” è il finto memoir di un vecchio dottore e il sentimento che lo domina poco ha a che fare con il patos crepuscolare che siamo soliti attribuirgli e molto invece con la spina nel cuore di un viaggio a ritroso, un ritorno mosso da sete di conoscenza, per sapere chi sei e da dove sei venuto. Prospettive  che, a un certo punto della vita, finiscono per sovrapporsi. E Felice Lasco, il protagonista, è stato lontano da Napoli per più di quarant’anni, parla  “una lingua-minestrone” fatta di idiomi diversi, “una cantilena un po’ piagnucolosa” attraverso la quale riverbera “un caleidoscopio di esperienze”: ha lavorato in giro per cantieri, a costruire strade e dighe in Africa e in Medio Oriente, vive al Cairo con una donna che si chiama Arlette, è tornato per occuparsi della vecchia madre che, attaccatissima al suo lavoro di guantaia, non aveva mai voluto saperne di raggiungere il figlio all’estero.

La guanteria un tempo era l’eccellenza del rione Sanità e la madre di Felice Lasco una cucitrice a piquet  “riverita e ben remunerata”, sempre curva sulla sua Singer.  Il romanzo scorre negli anni Ottanta della terribile deflagrazione camorristica  e la città inghiotte l’esule che, catturato da una specie di attrazione malefica, insegue la sua giovinezza nelle sembianze di un amico un tempo inseparabile: Oreste Spasiano detto  Malommo. Il nome denuncia chi è e la sfida che ne nasce è un gioco spericolato, dietro il quale si nasconde una contaminazione, il segreto che lega Felice Lasco a Spasiano fin da ragazzo. E a nulla valgono gli avvertimenti sull’animo umano del parroco della Sanità, un prete assai simile a quello vero, don Antonio Loffredo, che con una comunità di ragazzi da tempo lavora con buoni risultati al recupero di uno dei rioni più belli e difficili di Napoli.

Una scena di "Nostalgia" di Mario Martone
Una scena di “Nostalgia” di Mario Martone.

Basta, quello che ci interessa qui è una sola pagina di “Nostalgia”. Quella in cui Felice Lasco ritrova in un tugurio la vecchia madre quasi irriconoscibile, sporca e mezza cieca, denutrita e in stato confusionale, e prova un moto di vergogna per averla lasciata sola e indifesa nel rione di Malommo. Allora si procura una tinozza e, vincendo la sua ritrosia, la spoglia e comincia a lavarla e a insaponarla con una spugna di mare. Il bagno caldo è una cerimonia di purificazione, poi il figlio asciuga, pettina e deposita la madre tra lenzuola pulite. È lì che decide di cercarsi casa al rione e scrive ad Arlette di raggiungerlo a Napoli. Pensa di stabilirsi sulla salita di Capodimente, “perché lì la Sanità sa come da nessun altra parte di ventre materno, primogenitura, principio di un lunghissimo passato mai passato, silenzio e tumulto di un fuoco che continua a covare sotto la cenere”.  Quel gesto di amore verso la città-madre lo trattiene e gli costerà caro.

Napoli è una città iperfemminile. Fabrizia Ramondino diceva che, più che una madre, è una città-balia: nutre ma tradisce, è oggetto di un amore difficile che rende precario lo star di casa nel mondo. La madre di “Nostalgia”   non può più dare e invece chiede, è anziana e ha bisogno di attenzioni. A compimento del suo lungo viaggio letterario Rea aveva smesso di guerreggiare con Napoli dove era nato nel 1927, proprio al rione Sanità, e la vedeva con gli occhi di un figlio che desidera prendersene cura. Non era stato sempre così, lui era fuggito nel 1957 e la città si era presentata come una donna anche in altri suoi libri, a cominciare dal più bello: “Mistero napoletano”, con il quale vinse il premio Viareggio nel 1996.

 Più o meno fino a sessant’anni Rea era stato giornalista e, da fotoreporter della scuola partenopea di Caio Mario Garrubba, aveva girato per l’Europa e per l’Asia.  Era andato a vivere a Milano e aveva lavorato a “Panorama”, a “Tempo illustrato”, a “Il Giorno” che era una fucina di talenti, ma lui era nato cronista a  “L’Unità”. Prima di lasciare Napoli, quando la redazione si trovava ancora all’Angiporto Galleria, “il nostro caro budello simile al fondo sporco di una bottiglia”, aveva frequentato quel “covo di innocui trasgressivi” che calamitava scontenti, curiosi e naufraghi. Lì aveva conosciuto Francesca Spada e Renzo Lapiccirella. Quarant’anni dopo scriverà la loro storia illuminando i foschi anni Cinquanta e una città cristallizzata, dove tutti gli orologi si erano fermati.  Il tempo in cui Napoli fu una delle capitali della guerra fredda, una Berlino mediterranea, una “metropoli cupa e melmosa” dove “gli uomini e le donne caddero vittima di una sorta di fascinazione, di un’attesa allucinata … Tutti dannati, dunque? Temo proprio di sì”, scrisse. “Dico tutti: sia quelli che restarono sia quelli che partirono. Io partii”.

A rileggerlo oggi “Mistero napoletano” ricorda “Le vite degli altri”, il film di Florian Henckel von Donnersmarck sul clima culturale di Berlino est sotto il controllo della Stasi, che però è arrivato dieci anni più tardi. Vi si riconosce una sorta di mostruosa deformazione dei rapporti personali asserviti alla legge del sospetto: invidie, gelosie, piccole competizioni e meschinità travestite di argomentazioni ideologiche. “Mistero napoletano” è un’inchiesta sul suicidio di Francesca Spada. Una “bellezza aspra-intrigante”, una collega de “L’Unità” che scriveva pezzi di critica musicale e altri articoli colti e intelligenti che nessuno leggeva. Considerata inaffidabile, borghese, oggetto di pettegolezzi fino alla diffamazione spinta, Francesca era la compagna di Lapiccirella, uno poco incline alla subordinazione, uno che teneva testa a Togliatti guardandolo negli occhi. Renzo e Francesca erano in odore di eresia e per giunta lei era molto amica del geniale matematico Renato Caccioppoli, nipote di Bakunin. Era una donna imprevedibile, tagliente, di una franchezza ruvida, attirava malumori e fantasie morbose come la carta moschicida, “gli stalinisti laureati” la trovavano decadente. Era la vittima sacrificale perfetta e si dette alla morte inscenando un suicidio teatrale nel 1961. È lei, per Rea, l’emblema di Napoli della sua giovinezza: la città pietrificata e schiava dei suoi dèmoni, soffocata tra la base americana che le aveva sequestrato il mare e il porto per scopi militari e “un Pci arroccato nel proprio guscio stalinista, incapace di ogni ossigeno democratico”.

Quella Napoli era una bolla asfissiante, un amore impossibile e, per salvarsi, bisognava andare via. Però Rea non smise mai di tornarci. Quando scrisse “La dismissione” aveva già i capelli tutti bianchi ed era uno scrittore affermato: aveva vinto il Campiello nel 1999 con “Fuochi fiammanti a un’hora di notte”, un’esplorazione del mondo visto da Alicudi, l’isola più misteriosa delle Eolie, un uovo di roccia piantato in mezzo al blu, dove si era formata una strana comunità matriarcale. A Napoli andò per assistere al tramonto del sogno di redimere la città e curarne i mali grazie all’industria. A Bagnoli si stava infatti smantellando l’Ilva e “La dismissione” racconta la passione che lega Vincenzo Buonocore, ex operaio ed ex manutentore delle acciaierie, al gigantesco impianto che sta per essere smontato e spedito in Cina. Di quel romanzo Gianni Amelio ha poi  fatto un sequel cinematografico intitolato “La stella che non c’è”. Un seguito in cui i cinesi chiamano il manutentore da Napoli perché a quel gigantesco meccano manca un pezzo  senza il quale non si può  ricostruire  la fabbrica.

Vincenzo Buonocore è legato al suo impianto come a un’innamorata, tanto che Rosaria, la moglie vera di cui lui ha bisogno come dell’aria, sta per lasciarlo solo con la sua ossessione per l’acciaieria. Si prende – come si dice – una pausa di riflessione: il romanzo comincia così. E i colleghi se la ridono del manutentore e del suo amore per il dinosauro, dicono che le gru di notte piangono perché lui non si concede. Bagnoli, da cui non abbiamo imparato nulla, è l’anteprima di Taranto. Rea vede più in là e scrive  una ballata dell’orgoglio, che unisce il manutentore agli operai dell’alto forno e della cockeria: sempre pieni di supponenza e “sempre in bilico tra amore e odio” per quella loro Caiènna. Il secolo finisce con lo smantellamento dell’industria pesante e con il racconto di un’ambivalenza irrisolta: si spegne l’acciaieria che sputa la sabbia e il fumo nero di cui la gente si ammala, ma al suo posto resta niente. Un vuoto, un buco che non sarà riempito, nell’ economia della città come nell’identità sociale e nell’immaginario.

Ecco allora il vero romanzo dell’odio. È “Napoli ferrovia”, finalista al Premio strega nel 2007, ed è un viaggio notturno nei bassifondi della città post-ideologica. Rea si cala nel poligono più disperato della città in compagnia di una strampalata guida, un certo Caracas, un ex naziskin. I due esplorano strade buie e sporche dove incontrano immigrati, tossici e prostitute. Entrano negli scantinati dove si prega – i disperati rimasti senza bussola si convertono all’Islam- incontrano “belve rosse”, magnifiche Ferrari abbandonate in mezzo alla strada dai ras di camorra che non hanno bisogno di parcheggi. In quelle lunghe notti insonni affiorano il disgusto per una città che sta marcendo e l’orrore per un dialetto “sporco di violenza”. Rea non riconosce più la lingua materna. E allora compaiono i fantasmi degli amici di un tempo e tra loro Luigi Incoronato, lo scrittore che, poco prima di uccidersi, stava scrivendo un libro intitolato “Odio Napoli”.

Sceso nel pozzo della notte, Rea  incalza di domande Caracas: come ha potuto sporcarsi col nazismo? E non risparmia se stesso, “vecchia cariatide comunista”,  che fu “partigianello” a diciassette anni sulle Alpi Apuane perché la  famiglia, sperando inutilmente di scansare la guerra, era fuggita in Toscana. Ma poi tornò perché la Scugnizza, com’era affettuosamente detta sua madre, premeva per rientrare a Napoli; e il padre riaprì a piazza Mercato la ditta di colori che poi sarebbe stato costretto a chiudere perché lì si sparava e i clienti scappavano. In quel profluvio notturno di confessioni  e recriminazioni c’è una regina degli stracci, la donna di Caracas. Si chiama Rosa La Rosa, ha una cascata di capelli ramati, è tossica e bugiarda. Ogni tanto il suo uomo fantastica di ucciderla perché non ce la fa più a guardarla andare a fondo. Rosa La Rosa è l’icona della città disfatta: “La bellezza che si disfa a volte sa essere anche più struggente di quella sboccia”.  Il narratore lascia Napoli con la stessa furia e lo stesso strazio che Caracas prova per Rosa.

Quando torna per scrivere “Nostalgia”, Rea ha ottanove anni ed è quasi alla fine del suo viaggio. Il libro è uscito nel 2016 da Feltrinelli, l’editore che ha ripubblicato tutte le sue opere, un mese dopo la scomparsa dell’autore. È un libro testamento, un omaggio agli eroi e alle vittime del rione dov’era nato e dove la vita e la morte si inseguono in motocicletta su per la collina. Qui Felice Lasco scopre che l’inesausta aspirazione al ritorno è la malattia dell’esilio, Lo scrive alla sua amata Arlette. Adesso sa che “ecco, questa strada tortuosa e stretta sono io; questo vociare irato, questo profumo, questo lezzo sono ancora io; e sono anche questo sporco e rugoso volto di vecchia che mi osserva torva; sono questo raggio di sole che lambisce neghittoso quella finestra al terzo piano con le persiane sgangherate. Io sono insomma tutto il bene e tutto il male della Sanità”.

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