L’epistolario di Pasolini è una foresta. Ma non è la foresta pluviale amazzonica con le sue nebbie tropicali, avvolta nel caldo umido, è una foresta europea come ormai se ne trovano solo nel cuore della Germania e nei Carpazi: rifugio di ultime creature sacre e barbare, conosce l’inverno, la paura e il buio in pieno giorno, ma è circondata da terre coltivate e da villaggi. Il lettore che si inoltra in queste mille e cinquecento pagine di corrispondenza senza ragioni di studio deve trovare un suo sentiero e poi seguirlo senza timore di perdersi, tentato da deviazioni così seducenti da non poter essere tralasciate. Qualunque sia, la strada sarà avventurosa e piena di imprevisti.
L’editore storico di Pasolini, Garzanti, propone una nuova edizione de “Le lettere” con oltre 300 nuovi documenti rispetto alla prima, pubblicata da Einaudi negli anni Ottanta. Curato da Antonella Giordano e Nico Naldini, lo scrittore e poeta cugino di P. P. P., nato nella comune culla originaria di Casarsa della Delizia e scomparso due anni fa, questo volume è un preludio delle celebrazioni nei cent’anni dalla nascita – 5 marzo 1922 – di una figura chiave del Novecento italiano. Il poeta ucciso a 53 anni in circostanze brutali mai del tutto chiarite, nel 1975, condannato a restare nella memoria di chi c’era come un anno di tenebra. E per P. P. P. uso qui il termine essenziale di poeta, così carico del senso primario che gli attribuì Moravia. “In un secolo di poeti ne nascono pochi”, gridò nell’ orazione funebre: la sensibilità che ha generato anche il resto, i romanzi e il cinema e poi la pubblicistica luterana e corsara pure così importanti, tutto insomma è scaturito da quel nucleo incandescente e raro.
Nell’epistolario-foresta il lettore comune può fare un’esperienza conoscitiva straordinaria, muovendosi in un corpus organizzato in sequenza cronologica, senza badare troppo agli asterischi che segnalano quello che è nuovo rispetto alla prima edizione di un’era geologica fa. Il carteggio più fitto e rigoglioso è al tempo della giovinezza. Gli anni Quaranta e i Cinquanta, quando la prosa è più diaristica e coinvolgente, intima e accesa; poi si dirada fino alle missive scritte negli ultimi anni, spesso più funzionali all’attività del Pasolini scrittore, regista e polemista, che specchio di motivazioni interiori profonde. Ho escluso subito di entrare passando dalla porta degli ultimi cinque anni di vita, quelli che precedono l’orrore dell’Idroscalo di Ostia: sono più operative, professionali, l’incandescenza era già tutta altrove. Nella creazione febbrile e nella pugna dalle colonne del “Corriere della sera”. Sono gli anni della “Trilogia della vita” – con i film ispirati al “Decameron”, a “I racconti di Canterbury” e alle “Mille e una notte” – che poi si capovolge in abiura e vira al nero in “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, mentre Pasolini lavora a “Petrolio”. Una cattedrale spaventosa e grottesca, o – meglio – lo scuro labirinto del cui mood “appiccicoso” (è uno degli aggettivi usati da Emanuele Trevi nel suo “Qualcosa di scritto”, Ponte alle Grazie 2012) la corrispondenza appare sostanzialmente incontaminata. Non sceglierò questo sentiero, quello che porta dritto alla fine, che pure a Pasolini è da sempre ben presente. “Adesso io sono al tavolo e scrivo”, si legge in una lettera del 1943 al suo amico Franco Farolfi, “sono questi i gesti di me ventunenne, che rimarranno nella storia della mia vita, così orrendamente breve, inclinata verso LA MORTE, i gesti della stagione verde e lieve?”
La morte violenta schiaccia la vita, succede sempre. Eppure nessuna vittima è nella sua fine, anche quando appare carica di significati che si proiettano come ombre sull’intera esistenza, conta di più quello che c’era prima. Ho condiviso l’accanimento appassionato di Agnese Moro che ha sempre combattuto per sottrarre la memoria di suo padre al peso totalizzante dei terribili 55 giorni di prigionia in mano alle Brigate rosse: non c’è stato solo questo e, soprattutto, il resto non può essere dimenticato. Vale anche per Pasolini, gli esiti sono molto importanti, ma non sono tutto.
Chi legge un epistolario, un diario o un libro di memorie sa di accostarsi ai testi più prossimi alla consistenza umana di uno scrittore. Qui si può incontrare il ragazzo di Casarsa, quello che ebbe un fratello partigiano azionista, il diciannovenne che non sarebbe sopravvissuto al suo entusiasmo, trucidato con quelli della brigata Osoppo da combattenti comunisti aggregati alle milizie slovene di Tito: “Caro Guido, ora che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente e so cosa vuol dire il nome di fratello … “, scrive nel 1945, in una struggente lettera ideale, “ Tu non sei stato ucciso dai tedeschi o dai fascisti: ma da coloro che sarebbe stato lecito chiamare amici …” E poi c’è il giovane poeta, che nel 1947 trova un mentore in uno dei più grandi critici del secolo, Gianfranco Contini: “Egregio signor Contini, Glielo confesso, la Sua lettera mi ha dato un momento di intrattenibile gioia. Ormai le devo molto: Lei ha un ruolo decisivo, e proprio nella mia esistenza più appartata e presumibilmente più gelosa”. Da allora Pasolini elegge Contini come interlocutore privilegiato, desidera scrivere libri che piacciano a lui, più tardi porterà in tasca, come portafortuna, quel biglietto del 1972 dove Contini parla scherzosamente della tripolarità di P.P.P., argomentando che seppure due P. dovessero essergli ostili ce ne sarà sempre una terza disposta a ricevere un suo messaggio affettuoso. E poi viene il professore fuggito a Roma, città piena di “odori stupendamente afrodisiaci”, dove potrà vivere con minore ipocrisia e maggiore libertà la sua doppia natura. Qui si fa la conoscenza di un trentenne già carico di dolori, un letterato pieno di speranze, che scrive “Ragazzi di vita” con la consulenza linguistica di Sergio Citti, per mettersi “sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria!”. Con Livio Garzanti, che prima accetta di pubblicare il romanzo e poi si spaventa e impone pesanti interventi, battaglia ma poi cede: “Così mi trovo con le bozze mezze morte tra le mani, da correggere e da castrare. Una vera disperazione …”, scrive a Vittorio Sereni nel 1955. “Castrate” le bozze, il professore va verso il suo primo successo, che subito gli dona un’ambigua popolarità, è sostenuto anche dalla critica – se si escludono le stroncature di Emilio Cecchi sul “Corriere” e di Carlo Salinari su “L’Unità” – e c’è un processo per oscenità incombente. Pasolini è candidato per la prima volta al Premio Strega, presentato da Carlo Bo e, nientedimeno, da Giuseppe Ungaretti. Non lo vincerà, né allora né mai.
Lo lascio sconfitto ma assolto in tribunale per “Ragazzi di vita” nel 1956. Nella foresta della corrispondenza, ho individuato una via laterale, leggendo le lettere scritte a Silvana Mauri dal 1947, l’anno in cui il padre di Pier Paolo fruga tra le carte del figlio, trova il quaderno rosso e “sa” quel che c’è da sapere. Silvana è la sorella di un amico, il pittore Fabio Mauri, Pasolini è ancora uno studente. Con lei parla di tutto e stabilisce una confidenza profonda; passano il carnevale in campagna ballando insieme, si ritrovano a Roma a girare per la città come fidanzati. Allora tra loro cala l’imbarazzo, “silenzi odiosi” da cui lei si sente ferita, mentre dalla tasca di lui spunta l’inseparabile quaderno rosso.
Tornato a Casarsa, P.P.P le scrive: ”Fin dai nostri primi incontri tu avrai capito che dietro la mia amicizia c’era qualcosa di più ma di non molto diverso, una simpatia che era addirittura tenerezza. Ma qualcosa di insuperabile, diciamo pure di mostruoso si frapponeva tra me e quella mia tenerezza … Rivedi noi due in quel ristorante di Piazza Vittorio davanti ai ‘calzoni’ e ricorda il calore con cui ho difeso quella tua amica omosessuale. Non allarmarti, per pietà, Silvana, a quest’ultima parola: pensa che la verità non è in essa, ma in me … Tu sei la sola donna verso cui ho provato e provo qualcosa che è molto vicino all’amore, certo un’amicizia eccezionale”. Dunque è a lei che per la prima volta scrive, pieno di timori, dichiarandosi omosessuale. Lo sa da sempre; due anni dopo, nel 1949, lo scandalo: si apparta con dei ragazzi durante una sagra paesana e viene denunciato per “corruzione di minori”. Perde il posto d’insegnante, il Pci – cui nel frattempo si era iscritto – lo espelle per “indegnità morale”, deve lasciare il Friuli. A Silvana, Pasolini scrive: “Il mio futuro, più che essere nero, non esiste … Non trovo non la forza ma le ragioni, per riabilitarmi, redimermi, rassegnarmi, mimetizzarmi … e deraglio sempre più. Rimbaud senza genio”.
Lei gli resterà vicina, un angelo custode lungo la vita. Silvana Mauri apparteneva a una delle più importanti dinastie dell’editoria italiana, proprietaria delle Messaggerie, ha lavorato per quarant’anni in Bompiani dove il conte Valentino, fratello di sua madre, l’aveva messa diciassettenne a togliere nel “Dizionario delle opere” le “d” dalle preposizioni “ed” e “ad” per risparmiare la carta che allora scarseggiava. Per i successivi vent’anni ha diretto la Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri, fondata dal fratello Luciano. Aveva studiato al Liceo Parini di Milano con Franca Norsa, alla quale trovò il nome d’arte di Franca Valeri. È stata una figura di quelle che quasi non esistono più: creature defilate per scelta, che si prendono cura dei libri e dei loro autori, spesso sostenendoli anche nella vita personale. Nel 1950, Silvana Mauri sposò Ottiero Ottieri, è la madre di Maria Pace e di Alberto. Ginevra Bompiani, che la ricorda come una giovane donna “fosca e solare ” e come “una narratrice stupefacente”, è riuscita a pubblicare i suoi diari (“Ritratto di una scrittrice involontaria”, nottetempo 2006). Discreta e lontana dalle Pasolineidi, Silvana raccontò del suo legame con Pasolini a Luigi Amicone che nel 1995 ne scrisse su “Tempi”. “La mentalità moderna non può immaginare certe cose, la passione gratuita per cui tra un uomo e una donna non ci sia immediatamente il sesso. E invece è andata proprio così fra me e Pier Paolo. Mi capisce?…Ci siamo voluti bene, sempre. Era una specie di ingordigia del reale quello che ci univa. Una dolcezza che si nutriva della gioia di vedere le cose insieme”.
Ci sono state altre donne importanti nella vita di Pasolini. Ma poche sono le lettere che restituiscono, per esempio, l’amicizia intensa e tempestosa con Elsa Morante che, si intuisce, fu una vera presenza. P.P.P. scrive ai genitori di preparare un’ottima cena e prega il padre, da buon padrone di casa, di telefonare ai Morante-Moravia, ancora sposati, per invitarli. Teme Elsa e le sue scenate. Nel ’55 le scrive preoccupato delle maldicenze di Sandro Penna che la riferisce infastidita dalla sua freddezza. È ansioso di chiarire: “Come puoi pensare che io fossi ‘freddo’ con te e con Moravia? Forse non è colpa tua, perché io nelle riunioni (fattelo spiegare da Bassani) sono sempre appartato confuso e smarrito…” Dieci anni dopo litigano per il mancato pagamento della collaborazione di Elsa al film “Il vangelo secondo Matteo”: “Cara Elsa, … le tue escandescenze sono meravigliose, ma qualche volta ce le ho anch’io. È tutto il giorno che ci penso, e, giunto alle due di notte, dopo aver lavorato come una bestia tutto il giorno, e sofferto come una bestia per quello che mi si riferiva di te, sono giunto alle conclusioni che ho il diritto di sentirmi offeso”. Tra i due corre una potente complicità poetica e, forse anche di più, un’attrazione-competizione. Elsa è attratta dagli omosessuali, si era innamorata di Visconti e poi del pittore Bill Morrow; molti ritengono che il protagonista del suo ultimo romanzo, “Aracoeli”, sia ispirato a Pasolini nel suo rapporto con la madre-bambina. Forse, proprio per questa passionalità, la rottura fu cruenta: a P.P.P. non piacque “La storia” e lo scrisse senza pietà, Morante prese le parti di Ninetto Davoli quando il giovane attore abbandonò Pier Paolo per sposarsi.
Seduce la lettera inviata nel 1969 a Maria Callas. Pasolini le scrive guidato da “un’agoscia leggera leggera, non più che un’ombra eppure invincibile”. Lavorano a “Medea”e in lei ha percepito “il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà; di essere stata ‘adoperata’ (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo sentimento lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io, con te. È terribile essere adoperati ma anche adoperare”.
Sa già che parla a una donna innamorata? Certamente sa che prima di tutto parla a una grande diva:”Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita”. La creazione è violenza.