L’estate si è portata via Franco Battiato, Piera Degli Esposti, Antonio Pennacchi, Robert o Calasso, Gino Strada, Ranieri Polese, Bruno Ugolini, Gaia Servadio, Nicoletta Orsomando, Raffaella Carrà… E insieme a loro se ne sono andate due amiche a me molto care.
In luglio è morta Sesa Tatò, un’amicizia dell’età forte. Aveva novantasei anni e quest’anno ci eravamo affettuosamente scambiate al telefono gli auguri di Natale.
Da qualche tempo ci vedevamo molto poco. Dopo la morte di suo marito, Vittorio Foa, Sesa era andata a vivere a Torino, la città di sua figlia Daniela Garavini e del suo amatissimo nipote Matteo Viale. Ma Torino era già stata anche la sua città; lì Sesa aveva lungamente vissuto al tempo del suo primo matrimonio con Sergio Garavini.
L’avevo conosciuta da ragazza, Sesa aveva già più o meno sessant’anni: era bella, curiosa e generosa, con i capelli biondo lino striati di grigio e gli occhi color lavanda. Aveva lavorato a L’Unità e poi nelle riviste del sindacato; era quel tipo di giornalista, spesso coinvolta negli eventi di cui diventa testimone, capace di raccontare con passione – anche ad uso dei gruppi dirigenti di partiti e sindacati, non sempre attenti e ricettivi – le ragioni dei protagonisti del mutamento sociale che forse la interessava più di ogni altra cosa. Era molto attenta ai movimenti che avrebbero contribuito alla modernizzazione del paese e fu parte di quel gruppo di femministe coraggiose che dettero battaglia dall’interno dei sindacati per modificare una visione vetusta e tutta maschile del lavoro.
La nostra amicizia è nata anni dopo, quando l’ho ritrovata accanto a Vittorio Foa. Nell’ultima rigogliosa parte della sua vita, Vittorio rifletteva e scriveva sul secolo che aveva attraversato quasi per intero. Era nato nel 1910, aveva trascorso la gioventù in un carcere fascista, contribuito a scrivere la Costituzione, era una delle figure storiche del sindacato e all’epoca era senatore della sinistra indipendente. Ero andata a intervistarlo per un suo libro di memorie che l’Einaudi aveva appena pubblicato, Il cavallo e la torre, e quell’incontro fu l’inizio di una lunga frequentazione. Per più di dieci anni sono stata spesso ospite nella casa col giardino di aranci, che Sesa aveva ristrutturato a Formia e dove, con Vittorio, riceveva una vasta tribù di amici. Sono stati anni formidabili, di conversazioni e incontri indimenticabili intorno al grande tavolo della cucina. Molto speciale era la loro alchimia: Sesa e Vittorio mettevano seduti a pranzo giovani giornalisti e politici, ministri della Repubblica, studenti e insegnanti creativi, amministratori locali e grandi intellettuali, editori, sindacalisti e film maker. Una mescolanza di mondi e di linguaggi che oggi è quasi impensabile trovare a cena insieme: ne sono nate idee, libri, film, suggerimenti politici. Non ho poi mai più trovato qualcosa di simile. Sesa e Vittorio erano al centro di una rete, di una comunità dove si era accolti in amicizia e ascoltati con interesse, e dove aleggiava sempre il senso dell’umorismo.
Per il loro matrimonio, celebrato quando Sesa aveva ottant’anni e Vittorio novantaquattro , lei volle andare a Parigi a comprare una pamela. Nel suo tailleur di seta grigio perla apparve elegantissima, con il suo cappello parigino, mentre scendeva la scala per andare in municipio. Gli sposi erano due vecchi bellissimi. Vittorio, che ha sempre considerato l’ottimismo come una postura etica, ogni tanto diceva scherzando: «La vita mi ricambia perché l’ho molto amata». Voglio ricordarli così, insieme e innamorati della vita.
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Agosto ha portato via un’ amica d’infanzia, Maria Luisa Mattei. Di lei conservo il ricordo tenero e acceso dei nostri anni di ragazzine. Maria Luisa, detta Mallò, era più grande di quattro anni e quando io, bambina con la valigia, tornavo a San Romano in Garfagnana, il paese dei nonni materni dove ancora vado in fuga dall’afa estiva, mi accoglieva nel suo mondo: una dimora delle bambole che stava nell’altana sopra la grande cucina di casa sua. Un severo edificio di pietra, con l’impiantito di cotto rosso e con quella bella terrazza dove facevamo marmellate di petali di rosa, pesto di basilico profumato, polpette di terriccio e altre pietanze per nutrire la famiglia di bambole che lei dava in adozione alle amiche, con i loro corredi di abiti fantasiosi e di bizzarre stoviglie. Non erano giocattoli costosi, erano bambole usate da più generazioni di bambine, con guardaroba cuciti in casa e set da cucina assemblati in modo eccentrico. Maria Luisa mi ha prestato anche i suoi libri: dal primo, intitolato L’omino di pasta, che mi fu dato in prima elementare, quando sapevo appena leggere; alla più famosa serie di Piccole donne, che avrebbe inciso sulle nostre vite forse non meno degli avventurosi Ragazzi della via Pal. Quando ero ancora una piccola tipa che si alimentava di favole, Maria Luisa mi introduceva ai romanzi di vita. Custodiva una misteriosa combinazione di timidezza e di audacia, di grazia femminile e vigore maschile: è stata un’appassionata di atletica, al liceo ha poi fatto campionati e gare, amava lo sport. Ci hanno separate la distanza geografica e, prima ancora, l’adolescenza, quando quattro anni di differenza divennero tantissimi, troppi.
Maria Luisa ha insegnato educazione motoria e viveva nell’hinterland milanese con suo marito e due bellissime figlie, è diventata nonna. E’ stata a lungo malata e ha molto sofferto; sua sorella mi ha raccontato che tornava volentieri alla grande casa di pietra con l’impiantito di cotto rosso. La casa dove era nata ed era stata felice, quella con la grande altana. Ciao Mallò, grazie di aver accolto la bambina con la valigia.